09/05/2016 di Redazione

Biometria e volti “schedati”: il giudice non dà ragione a Facebook

Un gruppo di utenti dell’Illinois ha chiesto di bloccare la pratica di raccolta di dati biometrici, con cui il social network analizza le fotografie e genera suggerimenti per i tag. Facebook ha perso il primo round, vedendosi negata la richiesta di dismis

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L’opera di “schedatura fotografica” che Facebook realizza analizzando le immagini caricate sul social network (e ricavandone dati biometrici) non s’ha da fare. Così ritiene un gruppo di utenti dell’Illinois, che ha fatto causa all’azienda di Mark Zuckerberg chiedendo la cancellazione dei database contenenti le analisi biometriche dal momento che violano la normativa nazionale di privacy su questa specifica materia, l’Illinois Biometric Information Privacy Act.

Perché la biometria fa paura? In modo forse un po’ contraddittorio, vista l’abituale e massiva condivisione dei propri dettagli personali (fotografie incluse) sui social media, a spaventare è la possibilità di essere catalogati a nostra insaputa, in modo quasi “scientifico”. Facebook, infatti, sulla base dei tag già inseriti dagli utenti sulle immagini ricava una sorta di “impronta del volto” degli utenti. Questi parametri biometrici vengono poi usati per suggerire nuovi tag.

Giovedì scorso il social network ha perso il primo round: dopo essersi rivolta a una corte federale di San Francisco (dove il caso, lo scorso agosto, era stato trasferito) per chiedere la soppressione del caso, ha ricevuto un rifiuto. Per il giudice James Donato, il domicilio dell’azienda a Menlo Park non la sottrae al rispetto di normative di altri Stati, tanto più che le lamentele della class action risultano plausibilmente fondate. Nel caso si fosse schierato con Zuckerberg, per l’Illinois questo avrebbe significato una “completa negazione delle sue leggi di protezione della privacy biometrica”.

In base alle leggi dello Stato nordamericano, infatti, le aziende che raccolgono dati biometrici sono obbligate ad avvisare gli utenti di tale pratica prima di metterla in atto. E non solo: devono poi distruggere tali dati, secondo un calendario reso pubblico. Abitudini che al momento non riguardano né Facebook, né altri colossi del Web come Google, i quali dunque potrebbero poi risentire della decisione finale del giudice su questo specifico caso.

 

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