12/11/2015 di Redazione

Cloud privato, open non significa semplice: parola di Suse

L’azienda svela la nuova distribuzione commerciale del sistema operativo per la nuvola basato sulla tecnologia aperta Openstack, sottolineando l’importanza di un partner solido per la sua implementazione. L’adozione del framework in un data center “può ri

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Privato sì, ma basato su tecnologia aperta. Ecco come deve essere il cloud in azienda secondo una larghissima parte degli 813 professionisti It coinvolti in una survey sull’utilizzazione di cloud privati in imprese con almeno 250 dipendenti. I dati dell’indagine, condotta da Dynamic Markets per conto di Suse, parlano chiaro: il 90% dei manager interpellati lavora in realtà che hanno già implementato almeno una soluzione di nuvola privata e, inoltre, il 96% di loro preferirebbe questo approccio per le applicazioni critiche. Ma il cloud privato, come detto, deve essere accompagnato da un elemento ritenuto ormai quasi indispensabile: l’apertura del codice. Ecco che viene quindi chiamata in causa la tecnologia Openstack, già implementata dal 15% degli intervistati, a cui si aggiunge un ulteriore 66% che ha intenzione di muovere in questa direzione entro la fine del 2016. Ma open source non significa per forza semplicità d’uso, in particolare quando si devono gestire transizioni e processi molto delicati per il business aziendale.

“Openstack si basa su un modello analogo a quello che ha contribuito negli anni al successo e alla diffusione di Linux, con un risultato di alto livello e in continua evoluzione”, commenta Gianni Sambiasi, territory manager per l’Italia di Suse, introducendo così la strategia dell’azienda in ambito private cloud gestito da Openstack. “Questo framework, pur semplificando la vita di manager It e sviluppatori in quanto non si deve rendere conto delle modifiche al codice, perché basato su risorse open, può non essere facile da utilizzare. Soprattutto negli scenari molto complessi”.

“Il più delle volte non si può semplicemente scaricare Openstack e sperare di implementarlo con successo nel proprio data center, per gestirlo come Infrastructure-as-a-Service”, aggiunge Sambiasi. Ed è qui che entra in gioco l’esperienza del vendor, il primo a uscire sul mercato nel 2012 con la versione 1.0 della distribuzione commerciale di Openstack (e arrivata ora alla release 6 in beta) come sistema operativo cloud, che rimane e rimarrà comunque un progetto completamente open source (sono duecento le entità pubbliche, private e governative che figurano come contributori all’interno della community).

Eppure, secondo l’indagine già citata, il 44% dei manager It (il 53% in Italia) ha già pianificato di implementare il sistema operativo cloud per conto proprio, mentre il 45% preferisce affidarsi a una distribuzione commerciale, con un picco del 56% negli Stati Uniti. I professionisti del nostro Paese, quindi, sembrano quelli più vicini a una logica “do it yourself”. Una metodologia che presenta rischi, spiegabile forse con il tentativo di evitare il lock-in a un vendor unico.

“Il nostro obiettivo è fornire al cliente una versione di Openstack la più aderente ai propri bisogni”, sottolinea Sambiasi. “Ma questo non significa obbligarlo a rispettare ogni singola virgola della nostra implementazione. Un approccio di questo genere sarebbe del tutto estraneo alla logica del framework open source e non è quello che vogliamo, né possiamo fare”. Il sistema operativo cloud, che copre la parte infrastrutturale di un data center garantendone i servizi, può così essere adottato nella distribuzione proposta da Suse, ma il cliente può decidere liberamente quando chiamarsi fuori dalla fornitura dei servizi del vendor.

 

Fonte: Dynamic Markets, Suse

 

Comportamento ovviamente non suggerito se l’esperienza interna non garantisce un’implementazione corretta, in particolar modo nell’analisi dei processi. Secondo l’indagine, i professionisti italiani sono quelli che più hanno dovuto fare i conti con difficoltà d’utilizzo (51%), definendo l’esperienza “fai da te” con Openstack addirittura estremamente o molto problematica. Infine, le aziende della Penisola sembrano preferire più delle altre l’adozione di cloud privati (64%, contro il 56% della Germania).

 

Storage sempre più intelligente grazie al software

La nuova distribuzione commerciale per il cloud privato non l’unica novità di Suse, che di recente ha svelato anche l’aggiornamento della soluzione Enterprise Storage 2. “Anche in questo caso siamo partiti da un progetto open source, Ceph, per creare una distribuzione commerciale di un prodotto per lo storage definito dal software”, aggiunge Sambiasi. La principale novità dell’update, come già anticipato da Ictbusiness.it, è il supporto al protocollo iScsi in configurazioni multipath, consentendo così l’archiviazione a blocchi su sistemi operativi e ambienti differenti tra cui Linux, Unix e Windows.

“L’ambito dello storage definito dal software è in grande fermento”, conclude Sambiasi, “perché consente la riduzione dei costi It, grazie alla possibilità di acquistare anche hardware a basso costo, oltre all’aumento delle performance. Enterprise Storage 2 possiede funzionalità di autoreplica dei dati, di automanutenzione ed è scalabile, in quanto permette di comprare altri server solo in caso di necessità ed eliminando il bisogno di ricorrere ad appliance all in one molto costose”.

 

 

Ma l’attività del vendor per portare il “verbo” del software all’interno delle organizzazioni non si ferma qui. In collaborazione con diversi partner, l’azienda sta lavorando per implementare Enterprise Storage su dispositivi a tecnologia Arm a 64-bit, offrendo in questo modo ai clienti di livello enterprise e hyperscale la possibilità di scegliere quale piattaforma hardware utilizzare. Le prime soluzioni dovrebbero arrivare sul mercato nel primo trimestre del 2016.

 

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