13/07/2016 di Redazione

Facebook denunciata per non aver bloccato i terroristi

I familiari di cinque vittime di Hamas in Israele hanno chiesto il risarcimento di un miliardo di dollari al colosso di Menlo Park. Secondo i ricorrenti, l’azienda non sarebbe intervenuta per rimuovere contenuti inneggianti alla causa palestinese. I canal

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La questione è spinosa e si inserisce nel decennale conflitto tra Israele e Palestina. Facebook, social network diffuso ovviamente anche in quest’area teatro di scontri sanguinosi, è stato denunciato dai parenti dei cinque cittadini statunitensi rimasti uccisi tra il 2014 e quest’anno durante gli attacchi perpetrati da Hamas nel territorio israeliano, nella West Bank e a Gerusalemme. Secondo i ricorrenti, quattro cittadini con doppia cittadinanza statunitense e israeliana e un turista americano, Hamas avrebbe utilizzato Facebook per comunicare con i propri attivisti nella fase di coordinamento degli attacchi e per postare poi sul social network foto di propaganda della causa palestinese dove si inneggia all’uccisione di soldati israeliani. E l’azienda di Menlo Park non avrebbe fatto nulla per impedire questi comportamenti, né per rimuovere le immagini.

I ricorrenti hanno chiesto un risarcimento di un miliardo di dollari e l’azione legale è stata depositata il 10 luglio presso la Corte Distrettuale degli Stati Uniti nel Distretto Meridionale di New York. I parenti delle vittime sono assistiti dallo studio legale Darshan-Leitner, il quale ha chiesto alla Corte di intervenire per bloccare l’utilizzo del social network nelle case dei palestinesi dove si incita all’odio contro il vicino Paese.

Secondo la testata The Verge si è inizialmente pensato di classificare il caso sotto l’Anti-Terrorism Act, che impedisce alle aziende a stelle e strisce di fornire supporto alle organizzazioni terroristiche (Hamas è classificata in questo modo da Usa, Unione Europea e Israele), ma questo verrà poi probabilmente esaminato sotto la lente del Communications and Decency Act del 1996.

La norma, firmata dall’allora presidente Bill Clinton, specifica che un provider di servizi Internet o servizi Web che ospita contenuti di terze parti non sia da ritenere responsabile per le azioni dei suoi utenti. Ultimamente non tira una buona aria tra Facebook e Israele. A inizio mese il ministro della sicurezza pubblica Gilad Erdan aveva definito il colosso di Menlo Park “un mostro”, per non aver fatto nulla per rimuovere i contenuti che istigano alla violenza contro il Paese della stella di David.

 

Gilad Erdan, ministro della sicurezza pubblica con il governo Netanyahu

 

Pronta la risposta dell’azienda californiana. Il social network “vuole che le persone siano al sicuro quando utilizzano Facebook. Non c’è posto per contenuti che inneggino alla violenza, alle minacce, al terrorismo o a discorsi pieni d’odio”, ha commentato un portavoce della società a Bloomberg. “Abbiamo un set di standard che aiutano le persone a comprendere quello che è consentito e incoraggiamo gli utenti a utilizzare i nostri strumenti per riportare qualcosa che possa violare gli standard, in modo da riuscire a intraprendere indagini e azioni rapide”.

Il problema è che, come sottolineato dall’esperto di terrorismo nell’era di Internet Gabriel Weimann, dell’Università di Haifa, di piattaforme utilizzate da gruppi come Hamas ne è pieno il mondo. In seguito agli attentati di Parigi dello scorso novembre aveva fatto scalpore la notizia che i killer avessero sfruttato il network della Playstation per rimanere in contatto in modo anonimo. Fatto poi smentito, ma che sottolinea come, con la crittografia, sia al giorno d’oggi abbastanza facile comunicare senza esporsi troppo.

La stessa Whatsapp (e a breve anche Facebook Messenger), app di proprietà del gigante di Menlo Park, presenta sistemi di codifica end-to-end che non consentono a nessuno, se non ai soli utenti interessati, di conoscere quali informazioni vengono scambiate. Il caso Apple ed Fbi ha fatto scuola, portando all’attenzione pubblica mondiale un dilemma vivo e che non va affatto sottovalutato: proteggere la privacy dei cittadini a tutti i costi o permettere alle autorità, per ragioni di pubblica sicurezza, di poter “ficcare il naso” quando ce n’è bisogno?

 

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