27/04/2018 di Redazione

Flessibilità e nuove competenze: ancora miraggi per molte aziende

Le imprese faticano a rinnovare se stesse e le competenze dei propri collaboratori, come evidenziato da uno studio di Mercer. Nel mondo e ancor più in Italia esiste una distanza fra desideri e azioni concrete.

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Il mondo del lavoro corre veloce, o almeno vorrebbe farlo. Un nuovo studio di Mercer, “Global Talent Trends”, evidenzia nelle aziende di un po' tutto il mondo un forte desiderio di cambiamento, che si concretizza nella ricerca di collaboratori giovani mentalmente (cioè flessibili e tecnologici) se non anche anagraficamente. Ma non mancano incoerenze e distanze tra il dire e il fare. La società di consulenza e HR ha intervistato oltre cinquemila dipendenti, 1.800 responsabili delle risorse umane e 800 dirigenti d'azienda di 44 Paesi e 21 settori di mercato, giungendo al dato di fondo per cui la quasi totalità delle imprese, il 96%, sta pianificando un qualche tipo di riorganizzazione interna da realizzarsi entro due anni.

Il ruolo di chi nelle aziende lavora, come dipendente o collaboratore, è chiaramente cruciale in un qualsiasi percorso di ammodernamento. Si potrà ricorrere a risorse giovani, fresche di studio o di prima esperienza, ma anche a personale già consolidato che le aziende dovranno dotare di nuove competenze. Il cosiddetto reskilling, per dirla all'inglese. E qui si incontra una prima difficoltà: le aziende riusciranno nell'opera di ricollocamento dei vecchi collaboratori su nuovi ruoli? Ci crede un responsabile Hr su due, il 55% per l'esattezza, percentuale non troppo alta. E d'altra parte meno di un dirigente intervistato su cinque, il 18%, ha detto di considerare la propria azienda come “agile nel cambiamento”.

Puntando la lente sugli intervistati italiani, l'immagine è ancora meno confortante. Il 71% dei dirigenti nostrani prevede che da qui ai prossimi cinque anni smetterà di esistere almeno un ruolo su cinque fra quelli attualmente presenti nella propria azienda, mentre il dato globale si limita al 53%. Per contrastare l'invecchiamento delle competenze le nostre imprese non fanno poi molto, dato che solo tre su dieci (31%, contro il 40% della media dei 44 Paesi) stanno aumentando numero e ampiezza dei corsi di formazione online e che appena il 17% (versus il 28% globale) sta promuovendo la rotazione dei ruoli al proprio interno.

 

 

 

Le risposte dei dipendenti italiani confermano il quadro di una scarsa propensione al digitale delle imprese nostrane: il 62% considera la tecnologia come elemento cruciale per il successo dell'azienda, ma soltanto un terzo (contro il 48% globale) pensa di disporre degli strumenti digitali necessari per lavorare al meglio. Anche dalle risposte dei responsabili delle risorse umane emergono problemi: tre su quattro pensano che la propria azienda non sia organizzata in modo flessibile. Che cosa significa? Nella definizione di Mercer, la flessibilità “non riguarda soltanto la possibilità di lavorare da qualsiasi luogo e in qualsiasi momento, ma anche il fatto rispensare quale lavoro venga svolto, come e da chi”. Se vorranno procedere verso il cambiamento, le aziende dovranno capire come usare le tecnologie digitali per arricchire l'esperienza di lavoro delle persone.


 

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