La nuvola di Google è collassata e, durante il periodo di crash, ha tirato con sé servizi e applicazioni di altre aziende. Nella notte italiana fra il 2 e il 3 giugno la rete di data center di Big G localizzata sulla costa est degli Stati Uniti è andata in tilt a causa di un’inaspettata congestione del traffico. Dopo una prima ondata di panico diffusasi principalmente sui social network, il colosso californiano è intervenuto pubblicamente per smentire qualsiasi attacco hacker. In una nota, l’azienda ha scritto di aver avviato un’indagine interna e di voler migliorare i propri sistemi per “prevenire o ridurre la possibilità di incidenti futuri”. Il blackout di Google Cloud ha messo fuori uso servizi come Gmail e Youtube, così come i dispositivi connessi della serie Nest e applicazioni terze, come Snapchat e Discord, che dipendono dall’infrastruttura di Big G.
Fortunatamente, l’incidente si è verificato di domenica. Un crash di questa portata, durato diverse ore, in un giorno feriale qualsiasi avrebbe generato sicuramente un numero maggiore di problemi. Ma il collasso della nuvola di Google lascia intuire una volta di più quanto il mondo stia diventando dipendente dai servizi erogati dai colossi tecnologici. E, in particolare, dal cloud.
Molte aziende hanno deciso di affidare la totalità dei propri sistemi ai grandi provider statunitensi e, seppure i vantaggi della nuvola siano superiori ai rischi (almeno nella maggior parte dei casi), un incidente a livello di infrastruttura può causare danni per svariati milioni di dollari. Ecco perché una solida strategia multi-cloud è considerata la giusta chiave per ridurre al minimo le probabilità di incappare in blackout di questo livello.