L’Italia sale sul treno del lavoro flessibile, ma deve accelerare
Nello Stivale gli orari flessibili e il lavoro da remoto sono una realtà per meno di un dipendente su cinque, mentre i manager si allontanano dalla scrivania con maggiore libertà. Qualcosa potrà cambiare, con le misure previste dal Jobs Act per il 2016, ma oggi lo smart working è ancora un frutto acerbo.
Pubblicato il 30 ottobre 2015 da Valentina Bernocco

È notizia fresca di queste settimane il disegno di legge in cui il Governo ha equiparato la figura dello “smart worker” a quella di un normale dipendente, che per uno o più giorni al mese può prendersi la libertà di lavorare da remoto con gli stessi diritti di retribuzione e copertura assicurativa. Non anarchicamente, ma previo accordo sottoscritto con l’azienda in cui siano definite le modalità di utilizzo di Pc e smartphone, le fasce di lavoro e i controlli sull’operato del lavoratore. Nel Jobs Act è anche previsto che, sui 430 milioni di euro stanziati per gli incentivi fiscali all’assunzione, il 10% vada destinato alle iniziative di lavoro flessibile.
L’Italia sta ancora muovendo i suoi primi passi nel percorso dello smart working, o agile working che dir si voglia. Stando a un’indagine condotta da ContactLab e sponsorizzata da Citrix, nello Stivale circa otto lavoratori su dieci, l’81%, sognano di poter gestire in modo migliore la propria giornata operando da casa o da altri luoghi diversi dall’ufficio, ma ad appena il 19% è concesso di farlo. Sui 1.200 25-54enni intervistati, infatti, meno di uno su cinque può operare (occasionalmente o frequentemente che sia) da remoto.
E il dato peggiora se si guarda al numero di aziende che ammettono questa modalità per tutti i loro dipendenti: meno del 10%. “A livello culturale”, spiega Benjamin Jolivet, country manager di Citrix Italia, “esistono ancora molte resistenze verso forme di lavoro basate più sul raggiungimento di obiettivi concordati che sul numero di ore trascorse in ufficio. Questo ha a che fare da una parte con una classe dirigente ancora appartenente alla vecchia generazione, dall’altra con un sotto-utilizzo delle tecnologie oggi a disposizione”.
“Nonostante la penetrazione del mobile sia stata molto elevata e molto veloce in Italia”, prosegue Jolivet, “le aziende sono rimaste legate a una cultura che di fatto identifica il posto di lavoro con il luogo di lavoro. Le cose però sono destinate a cambiare, perché le nuove generazioni di lavoratori sono abituate a vivere connesse e a lavorare in modi e tempi molto diversi”. Il quadro è confermato anche dagli studi dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, secondo cui in Italia il lavoro a distanza nel 2013 risultava praticato nel 20% delle imprese ma era una possibilità concessa a tutti i dipendenti appena nel 2% dei casi.
Va sottolineato come certe figure professionali godano di privilegi e libertà superiori a quelle del comune dipendente. Così emerge confrontando i dati di Citrix e del Politecnico di Milano con quelli di Regus, società specializzata nell’offerta di spazi di lavoro flessibile e di coworking, con una rete composta da oltre 2.500 business center dislocati nel mondo. In base alle riposte degli italiani (parte dei 44mila intervistati in un centinaio di Paesi) risulterebbe che il 51% dei manager, dei professionisti e di chi svolge una professione intellettuale lavora lontano dall’ufficio per più di due giorni e mezzo a settimana. Siamo sostanzialmente in linea con il dato mondiale, 52%.
Il ruolo dei governi
L’indagine sembra dunque sfatare il mito dell’arretratezza italiana in tema di agile working, ma va sottolineato come Regus si sia focalizzata su alcune categorie professionali e non sulla generale platea dei lavoratori dipendenti. Il sondaggio, non sorprendentemente, evidenzia anche come le grandi imprese siano più avanti in questo percorso di libertà, flessibilità ed efficienza.
Oltre al cambiamento culturale da parte dei digirenti d’azienda, per agevolare lo smart working serve qualcosa di più sostanziale. Per l’86% dei manager e professionisti italiani intervistati da Regus, sarebbero necessari incentivi e agevolazioni fiscali che favoriscano l’introduzione di modalità di lavoro flessibile all’interno delle aziende. “Questa ricerca conferma che la crescita dello smart working è costante in tutta Europa”, ha commentato Mauro Mordini, country manager di Regus in Italia, “e che le imprese si aspettano dai governi nazionali incentivi e agevolazioni fiscali per incrementare ulteriormente queste modalità organizzative del lavoro”.
Libertà, risparmi ed efficienza
I vantaggi, veri o presunti, associati al lavoro agile riguardano infatti la maggiore libertà del singolo ma anche il guadagno di efficienza che si riversa sulle aziende. Vantaggi veri o presunti, perché difficilmente misurabili, ma comunicati a gran voce da chi ha già sperimentato queste modalità: fra gli intervistati dello studio di Citrix, in Italia il 78% ha detto di aver migliorato sensibilmente la propria condizione lavorativa e le proprie giornate, riducendo il tempo perso per gli spostamenti e bilanciando meglio le esigenze professionali e personali.
Fra le iniziative spot, l’anno scorso e quest’anno (rispettivamente, in febbraio e in marzo) il Comune di Milano ha promosso la “Giornata del Lavoro Agile”: all’ultima edizione hanno partecipato un centinaio fra aziende private ed enti, permettendo un risparmio medio di due ore di tempo ai loro dipendenti. Il mancato utilizzo dell’automobili nel tragitto fra casa e ufficio, inoltre, ha ridotto dell’1%, cioè di 32 tonnellate, i volumi di anidride carbonica rilasciati in città.
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