25/07/2017 di Redazione

La superbatteria si affida ai nanomateriali per ricariche veloci

I ricercatori dell’università newyorchese Drexel hanno realizzato un prototipo in grado di portare al 100% la carica di uno smartphone in pochi secondi. Il segreto è nel “sandwich” composto da Mxene, composto inorganico a due dimensioni, e idrogel.

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I nanomateriali potrebbero venire in soccorso degli smartphone affamati di energia. I ricercatori della Drexel University di New York hanno sviluppato un prototipo di elettrodi utilizzando il Mxene, un elemento caratterizzato da uno spessore talmente ridotto da essere praticamente in due dimensioni. Il progetto degli scienziati, avviato per trovare un nuovo modo per accorciare il più possibile i tempi di ricarica delle batterie moderne, è basato su una specie di “sandwich” composto da strati di Mxene e di idrogel. In questo modo si ottiene una struttura altamente conduttiva, che consente di portare al 100 per cento l’accumulatore di uno smartphone in pochi secondi, mentre le batterie delle automobili elettriche si possono ricaricare nel giro di qualche minuto.

“Il nostro studio rifiuta il dogma ampiamente accettato secondo cui gli accumulatori chimici, utilizzati nelle batterie e negli ‘pseudocondensatori’, sia sempre più lento rispetto alla conservazione fisica dei condensatori elettrici a doppio strato”, ha spiegato Yury Gogotsi, PhD, Distinguished University e Bach professor della Drexel, a capo del team di ricerca.

“Abbiamo dimostrato che è possibile ricaricare in poche decine di millisecondi dei sottili elettrodi costituiti da Mxene”, ha aggiunto Gogotsi. “In questo modo abbiamo aperto la strada allo sviluppo di dispositivi di conservazione dell’energia ultrarapidi, che possono essere caricati e scaricati in pochi secondi e che sono caratterizzati da capacità decisamente maggiori rispetto ai ‘supercondensatori’ tradizionali”.

Lo studio, pubblicato su Nature, è stato finanziato dal Fluid Interface Reactions, Structures and Transport (First) Center, un centro di ricerca sponsorizzato dall’U.S. Department of Energy’s Office of Science and Office of Basic Energy Sciences, oltre che dal National Science Foundation e dal Binational Science Foundation. Il team statunitense è stato affiancato da altri ricercatori provenienti da università francesi e israeliane.

 

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