21/03/2011 di Redazione

Perché è faticoso migrare alla nuova Internet?

Il nuovo allarme lanciato dall’Icann denuncia una mancanza di regole chiare per il passaggio al nuovo standard Ipv6 e una convivenza difficile con il vecchio protocollo Ipv4. Perché, lecito chiedersi, il necessario salto in avanti della grande Rete sta in

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L’8 giugno sarà una tappa importante per il futuro del World Wide Web. In questa data è infatti in programma la giornata mondiale dell’Ipv6, il protocollo Internet a 128 bit che dovrebbe scongiurare il rischio di collasso della Rete, ormai sovraffollata all’eccesso, ed evitare quella che qualcuno ha definito “IPcalypse”, l’Apocalisse del Web. Fra quattro mesi saranno testati – e coinvolti nella sperimentazione vi sono le varie Google, Facebook, Yahoo!, Akamai e i più grandi network di contenuti digitali – i server commutati al nuovo standard: l’obiettivo è quello di verificare se l’infrastruttura su cui poggerà l’Internet di domani sarà in grado di reggere il passaggio al nuovo standard di comunicazione telematica. Una prova, in altri termini, per avere quelle garanzie, oggi solo parziali, che permetteranno di portare il traffico on line sul nuovo protocollo evitando che la grande ragnatela telematica vada disastrosamente in crash. Cosa succederebbe se per davvero il sistema globale di Internet dovesse smettere di funzionare? Anche solo per un periodo di tempo molto limitato?

Il passaggio all’IPv6, che moltiplicherà  in modo esponenziale il numero di indirizzi Ip disponibili di un fattore pari a 10 alla 28esima ed  è da tempo auspicato anche da Vincent Cerf, il papà del World Wide Web e della tecnologia Tcp/Ip, è quindi un appuntamento irrinunciabile. Anche perché gli internauti del pianeta continuano a crescere e sono arrivati oggi (il dato è dell’Itu, l’agenzia per le tecnologie delle Nazioni Unite) a circa due miliardi. Il punto è però un altro: in che condizioni arriverà la Rete, e di conseguenza quanti milioni e milioni di utenti, all’appuntamento in questione? Un mese e mezzo fa la questione era tornata alla ribalta dopo il provider americano Hurricane Electric lanciò un avvertimento inequivocabile: gli indirizzi Ipv4 stanno finendo e la riserva di oltre 4,3 miliardi di identificativi numerici è esaurita. Fatto puntualmente verificatosi nella prima settimana di febbraio.

Siamo a metà marzo e anziché registrare annunci in serie inerenti il completo supporto dell’Ipv6 a firma dei vari operatori telco (quelli italiani sarebbero fra l’altro fra quelli più indietro nell’opera di  riconfigurazione dei grandi router di smistamento del traffico Internet) tocca invece recepire il grido di allarme lanciato dall’Icann, l’Internet Corporation For Assigned Names and Numbers, l’organismo deputato a definire le regole e termini per l’attribuzione dei nomi e degli indirizzi Ip. Il passaggio all’Ipv6 procede a rilento ed è stata presa sottogamba da governi, istituzioni, aziende e provider. Eppure proprio l’Icann ha più volte rivisto la data della vitale migrazione, che qualcuno ha argutamente paragonato a quella dall’analogico al digitale in campo televisivo: mesi fa si parlava del 2012, poi l’estate 2011 e quindi la primavera di quest’anno.

Il punto focale della questione è il seguente: i due standard dovranno convivere per un certo periodo di tempo e questo è assolutamente comprensibile nonché tecnicamente fisiologico ma nessuno sa dire in questo momento quando tutti i sistemi dovranno operare solo sull’Ipv6. In altre parole non c’è nulla che “obblighi” con una data di scadenza precisa i carrier telco - i maggiori consumatori di indirizzi Ip – ad aggiornare le proprie infrastrutture per supportare il nuovo protocollo. Con il rischio di disservizi notevoli: i terminali targati Ipv4 non sono compatibili con i nuovi device Ipv6 e per permettere ai vecchi indirizzi di “dialogare” con quelli nuovi nel periodo di sovrapposizione dei due standard i provider saranno costretti a ricorrere ai cosiddetti Nat (Network address translation o Native address translation), che permettono di modificare gli indirizzi Ip dei pacchetti in transito su un sistema che agisce da router al fine di gestire il traffico in modalità bidirezionale. I consumatori, inoltre, dovranno anche fare attenzione all’acquisto dei nuovi router per la casa, che stando ai bene informati non hanno (al momento) l’obbligo di recare sulla confezione il “bollino” Ipv6.

Possibili errori di valutazione a parte (sempre ricorrenti quando c’è di mezzo un passo in avanti della tecnologia), ciò che sarebbe bello poter capire chiaramente da parte degli utenti sono sostanzialmente tre cose: come verrà gestito il passaggio da provider e web company, come verrà effettivamente garantita la compatibilità fra siti e device Ipv6 e siti (e device) capaci invece di supportare il vecchio protocollo e come sarà garantita la sicurezza di quei dati (pensiamo per esempio a quelli del conto corrente bancario) accessibili on line da pc o terminale mobile e ospitati su quei siti che saranno oggetto di “refresh” ad opera degli Internet provider.

Il monito dell’Icann - “bisogna accelerare l’adozione del nuovo protocollo” - va quindi preso sul serio per diversi motivi perché il rischio di un digital divide imputabile alla modalità di connessione, quando la migrazione all’Ipv6 sarà avvenuta, esiste. Anche perchè qualche operatore telco pare abbia già pensato a un’offerta di servizi differenziata, che indirizzerà le connessioni basate sul nuovo protocollo agli utenti più “importanti. Non possono essere quindi alcuni miliardi di dollari, tanto l’Icann stima la spesa della migrazione su scala mondiale, a costituire degli ostacoli. Perché senza l’IPv6 non ha senso parlare di Internet delle cose. Almeno così dicono gli esperti.






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