C'era una splendida opportunità per innovare il sistema Italia e fare cassa: seguire le indicazioni dell'Unione Europea e mettere all'asta le frequenze radio liberate dalla digitalizzazione delle trasmissioni televisive. Il passaggio dall'analogico al digitale moltiplica per sette le frequenze "vecchie": chi ha in concessione una frequenza analogica se ne ritrova magicamente sette digitali da gestire.
Il grande caos che la storia delle televisioni private ha portato nell'etere italiano aveva portato alla necessità di avere quantomeno una mappa delle antenne e delle frequenze occupate lungo lo Stivale per sbrogliare le sovrapposizioni e assegnare agli operatori televisivi con copertura nazionale quelle frequenze digitali pulite che non confliggono tra un'area e l'altra.
Ci sono voluti molti anni (dal 1998) e alla fine, sulla base delle leggi Maccanico e il decreto Romani, si sono sostanzialmente congelate le cose così com'erano nell'analogico: chi c'è c'è e chi non c'è si metta in coda.
Al Piano Nazionale delle Frequenze per la TV digitale è dedicata sul Coriere della Sera una breve intervista ad Antonio Sassano, professore universitario, consulente AgCom "padre riconosciuto" del Piano.
Il quesito che Enrico Grazzini pone a Sassano è semplice: il Piano viene contestato dalle televisioni locali perché non rispondente alle loro esigenze. Nel contempo c'è Paolo Romani, viceministro per le Comunicazioni, che vuole proporre una norma che obblighi a utilizzare le frequenze loro assegnate o a liberare quanto non usato così che lo Stato possa farne un'asta e ricavarne circa 2,5 miliardi di euro. Qual è la strada per uscire dal bivio che vede grandi e piccole TV contestare il piano, non utilizzare con strategie di qualità i canali digitali (le si occupa con vecchi film e repliche pur di tenerlo occupato), la possibilità di far cassa dalla vendita delle frequenze libere agli operatori di telefonia mobile?
Una tavola dello studio del Piano Frequenze
Sassano correttamente sottolinea lo stato delle cose: gli operatori mobili hanno assoluto bisogno di nuove frequenze, soprattutto quelle degli 800 MHz, perché a causa degli smartphone e il loro utilizzo della trasmissione dati, le attuali frequenze potrebbero essere saturate e i network collassare o degradare pesantemente nella qualità del servizio.
C'è un episodio, a questo proposito, passato nel silenzio generale nonostante le infinite chiacchiere che hanno sommerso da mesi l'evento. Durante la presentazione di iPad lo stesso Steve Jobs cheise la cortesia alle migliaia di astanti di scollegarsi dalla rete Wi-fi dell'hotel perché l'iPad che voleva dimostrare non riusciva ad agganciare l'hotspot e non aveva banda sufficiente per navigare. Non solo. Testimoni dell'evento riferirono che per la mezza giornata della presentazione Apple i collegamenti con l'operatore 3G furono pressoché impossibili: troppe persone concentrate nella cella, troppe richieste di trasmissione dati contemporaneamente. Risultato: collasso della rete e neanche la fonia garantita. Molti dei presenti, insomma, cancellati dalla Rete.
Insomma, che il bisogno di aumentare le frequenze per offrire la larga banda mobile ci sia è un fatto incontrovertibile.
In Germania l'asta di alcune frequenze radio ex-televisive ha fatto incassare allo stato 4,4 miliardi di euro da parte di Telefonica, Vodafone, Deutsche Telekom. Paolo Romani, da quanto si capisce, vorrebbe togliere alle Tv locali le frequenze che loro non utilizzano per rimetterle all'asta. E' una scelta credibile?
"Temo che sia difficile, se non impossibile, dare le frequenze alle locali e poi togliere quelle 'sprecate'. Sarà difficile dimostrare che non sono bene utilizzate".
E allora, qual'è l'alternativa?
"Favorire anche con premi in denaro la liberazione delle frequenze da parte delle emittenti locali: una sorta di rottamazione. Lo stato spenderebbe decine di milioni, ma guadagnerebbe miliardi dall'asta per i servizi mobili. Occorre fare subito un'asta, anche a spettro ancora occupato dalle Tv. La soluzione migliore per tutti, cittadini-contribuenti compresi".
Questa la risposta del professor Sassano.
A me sembra si
stiano perdendo di vista i fondamentali: le frequenze radio sono un bene
pubblico dato in concessione. Le concessioni vengono date come pure
revocate. Il dissennato decreto Romani ha richiesto ai tecnici di
rispettare anzitutto lo status quo delle reti televisive nazionali (Rai,
Mediaset, Telecom). Poi di dare alle locali quanto esse avevano già in
tasca.
Ora, se le reti nazionali e le locali vogliono rivendere a
terzi un canale poco usato, possono farlo come rivenditori d'una
concessione pubblica. E' qui l'assurdo.
L'Italia delle frequenze radio
televisive
Il Piano delle Frequenze non ha riordinato un bel
niente: ha fotografato l'esistente da bravo supporto tecnico al
ministero e tentato di risolvere le aree di conflitto. Il risultato però
è uno spezzatino di frequenze "sottoutilizzate" che non è per niente
appetibile per gli operatori di telefonia mobile: è più una
complicazione che un guadagno. E gli operatori ci sguazzano nelle
polemiche delle TV locali contro il Piano. Sanno che prima o poi, e
senza spendere un euro, si ritroveranno assegnate a poco prezzo le
frequenze spezzatino non interessanti per nessun altro. E lo stesso
ragionamento fanno per i canali assegnati alle Regioni che tutto sanno
fare tranne che gestire un canale televisivo pubblico per i propri
cittadini regionali.
E dunque? Lo Stato paghi le Tv locali per
riprendersi in mano ciò che è pubblico così da rendere più appetibile
un'asta di frequenze "commercialmente interessanti"? E perché mai? Non
basterebbe una leggina che, coerente con quanto suggerisce la UE e
l'esperienza tedesca, con la forza della legge si riprende le
concessioni 800MHz e le pone sul mercato in un'asta competitiva (non
beauty contest, ossia invitando i soliti noti, ma perché no favorendo
anche nuovi entranti purché paghino e molto)?