30/10/2018 di Redazione

Più cloud che open source dietro al maxi accordo Ibm-Red Hat

L’acquisizione più costosa della storia per Big Blue va letta nell’ottica della battaglia multicloud in corso fra i grandi player. Qualche dubbio emerge sul vero valore aggiunto del merge.

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A poche ore dall’annuncio dell’acquisizione di Red Hat da parte di Ibm, per la cifra record di 34 miliardi di dollari, qualche riflessione s’impone, a partire da un dato di fatto fondamentale, ovvero che le due aziende erano già partner di lunga data sul fronte dell’open source. Il pioniere del software “libero”, tuttavia, lavorava anche con diversi altri player, che ora invece rischiano di perdere un’alleanza difficile da rimpiazzare.

 

Allo stesso tempo, l’amministratore delegato di Ibm, Ginny Rometty, da subito ha sottolineato soprattutto come l’azienda che dirige debba diventare “il primo fornitore mondiale del cloud ibrido e potrà offrire alle imprese l’unica soluzione di cloud aperto oggi disponibile”. Questo chiarisce quale sia l’ambito nel quale inscrivere la colossale operazione societaria.

 

Big Blue ha ormai perso la battaglia sul territorio del cloud pubblico, dove imperano Amazon Web Services, Google Cloud Platform e Microsoft Azure. Quindi, tanto vale puntare sulla gestione degli ambienti ibridi, la vera sfida per le aziende che si sono impegnate nel cloud. In quest’ottica, Red Hat offre alla nuova padrona un know-how OpenStack, che rivaleggia con Vmware (peraltro di recente avvicinatasi molto ad Aws).

 

Indubbiamente, Red Hat rappresenta un investimento potenzialmente redditizio sotto diversi punti di vista. Parliamo di un’azienda capace di passare in vent’anni da un giro d’affari di 5 milioni di dollari agli attuali 3 miliardi di dollari circa, con 66 trimestri consecutivi di crescita. L’integrazione multicloud rappresenta il percorso evolutivo scelto da tempo da una realtà nata e cresciuta nel mondo Linux e ancora legata a doppio filo al proprio prodotto-faro, il sistema operativo Red Hat Enterprise Linux. Il peso di quest’ultimo sul giro d’affari, però, è calato nel giro di un anno dal 77% al 66,8% del totale.

 

Gli analisti hanno riconosciuto l’importanza dell’operazione, ma hanno anche avanzato qualche dubbio di merito. Ad esempio, c’è chi ha fatto notare come Ibm venga da un periodo finanziariamente difficile, con un terzo trimestre in calo anche su fronti innovativi, come lo stesso cloud e il cognitive computing. E poi occorrerà verificare a fusione completata e metabolizzata se la combinazione consentirà realmente di aumentare il peso del nuovo

soggetto nel campo della gestione multicloud.

 

La scommessa (da vincere, per il momento) è che Ibm possa arrivare a rivestire un ruolo di leader autorevole per le aziende impegnate non solo a gestire diverse piattaforme cloud, ma anche l’evoluzione verso l’intelligenza artificiale o le sfide della sicurezza. In Italia, ma non solo, per ora prevale ancora la scelta di orientarsi verso il monofornitore e questo può rappresentare un limite di prospettiva per l’ambiziosa operazione.

 

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