25/02/2015 di Redazione

Tasse e brevetti costano 788 milioni a Apple e (forse) a Google

L’azienda di Cupertino dovrà pagare 532,9 milioni di dollari per aver usato senza permesso tre brevetti di Smartflash in servizi come iTunes, mentre secondo voci non confermate Big G verserà al fisco italiano 320 milioni di euro come compensazione per le

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Anche i ricchi piangono. Due belle batoste si sono appena abbattute su due fra i più grandi nomi del Web e dell’industria tecnologica, Google ed Apple: per ragioni diverse, le due aziende dovranno sborsare una cifra che (complessivamente) quasi sfiora i 780 milioni di euro. Il colosso fra i motori di ricerca dovrà pagare al fisco italiano 320 milioni di euro, calcolati come compensazione per le tasse non versate fra il 2008 e il 2013, o meglio versate al di fuori dello Stivale; la Mela, invece, è stata giudicata colpevole della violazione di tre brevetti tecnologici di Smartflash e dovrà rimborsare quest’ultima con 532,9 milioni di dollari.

In realtà, a Apple non è andata nemmeno troppo male: la richiesta fatta da Smartflash due anni fa era di 852 milioni di dollari di risarcimento. Poi ridotti di circa un terzo nella sentenza emessa ieri da un tribunale federale texano, nella città di Tyler, dopo otto ore di consultazione della giuria. La residenza geografica del processo non è un dettaglio insignificante: sempre a Tyler nel 2012 la compagnia di Cupertino era stata condannata a versare a VirnetX (società di brevetti legati alla sicurezza Web) un risarcimento per violazioni di copyright pari a 368 milioni di dollari, cifra sovrastimata e infatti poi ridotta in appello.

La nuova pietra della discordia riguardava tre brevetti per la memorizzazione dei dati di accesso a servizi online e a sistemi di pagamento. Apple li ha utilizzati, per esempio, per permettere di acquistare e conservare canzoni e video su iTunes, e lo ha fatto – così ha stabilito il tribunale – con consapevole violazione della proprietà intellettuale altrui dal momento che tali brevetti non sono stati pagati. Il “passaggio di conoscenza” sarebbe avvenuto anni prima, intorno al 2000, quando uno degli inventori delle tecnologie di Smartflash, Patrick Racz, era entrato in contatto con dirigenti di Gemalto poi successivamente assunti da Apple.

 



A Cupertino, ovviamente, non la pensano così. “Ci siamo rifiutati finora di pagare questa società”, recita una nota di Apple, “per idee che sono frutto di anni di innovazione dei nostri dipendenti, e sfortunatamente non c’è rimasta altra scelta se non combattere davanti a un tribunale”. La società di Tim Cook ha già annunciato di voler ricorrere in appello.

Non ci saranno, invece, seconde chance per dimostrare le proprie ragioni per Google. Un oceano e motivazioni di natura diversa separano le due vicende, accomunate solo dalla grandezza dei protagonisti e dai molti zeri dei risarcimenti loro imposti.  La stampa nostrana ha parlato di un accordo storico, perché per la prima volta l’azienda di Mountain View si sarebbe arresa, accettando di pagare le imposte che il fisco le contesta: 320 milioni di euro, su un imponibile che la Guardia di Finanza e la Procura di Milano hanno quantificato in 800 milioni di euro. Si tratta di soldi generati dalle attività di Google in Italia ma trasferiti in altre nazioni a tassazione più conveniente, come l’Irlanda.
 
Il contenzioso andava avanti da tempo e le risorse per una battaglia legale non sarebbero mancate a un gigante come Big G, ma ha prevalso la linea della distensione. Forse per ragioni di immagine, o forse per non appesantire con ulteriori pensieri una fase in cui già è in corso un contenzioso con gli editori di diversi Paesi europei in merito alla “web tax” da imporre a Google News.  Due ulteriori ragioni molto concrete hanno, probabilmente, pesato su questa scelta.

La prima è la legge varata lo scorso anno dal governo irlandese: d’ora in poi multinazionali tecnologiche come Google, Amazon e Microsoft, che abbondano di sedi legali e data center collocati nella verde isola, saranno tassati più pesantemente anche in relazione agli introiti generati in altre nazioni. La seconda ragione è la minuziosa indagine avviata dalla Guardia di Finanza e dalla procura di Milano, in cui ci sarebbero le prove del meccanismo usato da Big G per fatturare altrove i guadagni generati in Italia.

 


La vicenda, annunciata dal Corriere della Sera, non ha ancora la conferma dei diretti interessati. Da Google è anzi arrivata, tramite Ansa, una formale smentita: “La notizia non è vera, non c’è l’accordo di cui si è scritto. Continuiamo a cooperare con le autorità fiscali”. Bruti Liberati, procuratore della Repubblica di Milano, in un comunicato ha chiarito che  “è stato intrapreso il contradditorio” con i rappresentanti legali di Google e che “allo stato delle attività di controllo non sono state perfezionate intese con la società, che si è riservata di fornire dati ed elementi che consentano di quantificare la redditività in Italia delle proprie attività economiche. All’esito saranno tratte le valutazioni conclusive sia sotto il profilo fiscale che sotto il profilo della quantificazione penale”.

Dichiarazioni, che comunque, non escludono un accordo sia nell'aria. Il Corriere, in ogni caso, si era detto certo: l’intesa fra i legali della società californiana e le autorità italiane sarebbe già stato raggiunta la settimana scorsa e sarà formalizzata nei prossimi giorni tramite istanza di adesione alla Agenzia delle Entrate. Non resta che aspettare.

 

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