31/08/2016 di Redazione

Tim Cook fa la voce grossa con la Commissione Europea

Il Ceo di Apple respinge le accuse della Ue, che ieri ha chiesto alla Mela di pagare 13 miliardi di euro di tasse arretrate, e minaccia conseguenze serie se la decisione di Bruxelles dovesse diventare definitiva.

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Quando il gioco si fa duro in campo deve scendere il numero uno. È quello che ha fatto Tim Cook, Ceo di Apple, che ha scelto il metodo della lettera aperta alla comunità della Mela per rispondere all’accusa di aiuti di Stato illegali proveniente dall’Unione Europea. Ieri Bruxelles ha “chiesto” all’azienda di Cupertino di chiudere i conti con il fisco irlandese (la sede europea della compagnia è a Cork, in Irlanda) versando la bellezza di 13 miliardi di euro di tasse arretrate, che coprono il periodo dal 2003 al 2014. Ovviamente, Cook chiama la società completamente fuori da qualsiasi accusa. “Apple rispetta la legge e paga tutte le tasse dovute, in qualsiasi Paese”, ha scritto il boss di Cupertino. “Nel corso degli anni abbiamo ricevuto dalle autorità fiscali irlandesi le istruzioni utili per ottemperare tutti i nostri doveri, le stesse imposte a tutte le altre realtà che operano qui”.

“Mentre il nostro business cresceva, siamo diventati il maggior contribuente in Irlanda, negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo”, ha continuato Cook, che ha poi diretto i propri pensieri all’operato dei commissari di stanza a Bruxelles. “La Commissione Europea ha provato a riscrivere la storia di Apple in Europa, ignorando le norme fiscali dell’Irlanda e sovvertendo nella propria indagine anche tutto il sistema internazionale. Il parere pubblicato il 30 agosto sostiene che l’Irlanda abbia favorito Apple. Questa affermazione non trova riscontri né nella realtà dei fatti né nella legge”.

“Non abbiamo mai chiesto e non abbiamo mai ricevuto trattamenti di favore. Ci troviamo adesso nella posizione insolita di pagare tasse aggiuntive in maniera retroattiva, a un governo che dice di non volere nulla di più di quello che abbiamo già versato”. E qui le parole di Cook si fanno pesanti. “La decisione della Commissione non ha precedenti e ha ripercussioni serie, di ampia portata, perché di fatto propone di sostituire le leggi fiscali irlandesi con la visione che la Commissione stessa ha di quelle norme. Sarebbe un colpo durissimo alla sovranità dei singoli stati membri della Ue in materia fiscale e al principio della certezza del diritto in Europa. L’Irlanda ha già dichiarato che farà ricorso e Apple farà lo stesso. Siamo convinti che la decisione della Commissione verrà ribaltata”.

 

Tim Cook, Ceo di Apple

 

Non è chiaro cosa intenda Cook quando parla di “ripercussioni serie”, ma il primo pensiero va ovviamente ai posti di lavoro che Apple ha creato in questi anni in Europa. La stessa lettera del Ceo della Mela si apre infatti con il ricordo di Steve Jobs che, nel 1980, decise di aprire a Cork, nel sud dell’Irlanda, i primi uffici della società nel Vecchio Continente. Allora la sede occupava sessanta dipendenti, oggi nel Paese atlantico operano circa 6.000 persone per conto del colosso di Cupertino.

E Cook sostiene che, nel tempo, le attività di Apple abbiano contribuito a creare in Europa circa 1,5 milioni di posti di lavoro, grazie soprattutto all’indotto (sviluppatori, fornitori e così via). Se l’appello depositato dall’azienda dovesse essere respinto, è probabile che la Mela decida di diminuire gli investimenti nel continente e di conseguenza di licenziare, anche se ormai tutta la produzione è stata spostata in Cina da circa vent’anni. Lo “scontro” tra Bruxelles e Cupertino potrebbe quindi continuare a lungo.

 

Gli aspetti poco chiari dell’operato di Apple

Cook, nella sua lettera, non affronta però nessuno dei punti oscuri che hanno contraddistinto le operazioni fiscali della compagnia. Dopo lo spostamento in Asia, Apple ha comunque mantenuto la stessa struttura societaria per sfruttare i grossi vantaggi fiscali previsti dalla normativa irlandese. Nell’isola vige un’imposizione media del 12,5 per cento, mentre secondo Bruxelles la Mela sarebbe riuscita a spuntare tassi dell’un per cento, per scendere poi dal 2003 in poi addirittura allo 0,005 per cento.

Come sottolineato da Repubblica.it Cook non parla nemmeno delle due società irlandesi, la Apple Operations International (Aoi) e la Apple Sales International (Asi), che curano rispettivamente per la casa madre Apple Inc le vendite negli Stati Uniti e nel resto del mondo. La Aoi, soprattutto, pur essendo incorporata sotto la legislazione irlandese sin dal 1980, e pur avendo indirizzo a Cork, non ha effettiva presenza fisica né nel Paese atlantico né altrove.

E non è finita. La Aoi non sembra mai avere avuto nemmeno alcun dipendente, come riportato in un documento di indagine (Offshore Profit shifting and the Us tax code) voluto dal Permanent subcommitte on investigation (Psi) del Senato statunitense, pubblicato nel 2013: un rapporto quindi voluto dal governo a stelle e strisce e non dai commissari europei. Allora il personale della Aoi era composto da sole tre persone: Gene Levogg e Gary Wipfler, che risultavano però essere dipendenti della casa madre californiana, vivevano negli Usa e avevano ruoli dirigenziali anche in altre società del gruppo di Cupertino, e Cathy Kearney, la quale era assunta addirittura da un’altra compagnia di Apple Inc (la Adi).

 

 

In pratica una scatola vuota, che ha permesso però alla Mela di reggere il gioco per anni: in Irlanda l’azienda ha dichiarato di non essere una società posta sotto il controllo di una holding locale, mentre negli Usa ha affermato di non essere incorporata sotto la legge a stelle e strisce. E anche Tim Cook avrebbe avuto un ruolo ben preciso in questo schema.

Nel 2008 il successore di Steve Jobs firmò un documento, chiamato “Contratto di condivisione dei costi con la Apple Inc”, che permise a un’altra società, la Apple Sales International (Asi, in cui Cook aveva il ruolo di direttore) di non avere nessuna residenza fiscale e nessun dipendente. Contribuendo così ad arrivare alla situazione odierna, in cui la Mela ha in cassa la bellezza di 230 miliardi di dollari, quasi venti volte la cifra richiesta a gran voce ieri da Bruxelles.

 

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