14/02/2013 di Redazione

Furto dei dati in azienda: dipendenti senza sensi di colpa

Sono risultati sorprendenti quelli di uno studio di Symantec sull’utilizzo di informazioni e proprietà intellettuale da parte di collaboratori ed ex dipendenti: il 40% è pronto a sfruttarli nel nuovo posto di lavoro e quasi metà delle organizzazioni non i

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Inutile ribadire, per chi fa parte del mondo dell’It, quanto il sapere sia una valore economico e strategico da tutelare. Specie mettendolo al sicuro dagli sguardi indiscreti della concorrenza. Eppure sembra che le aziende non riescano a formare adeguatamente i dipendenti in fatto di rispetto della proprietà intellettuale. La realtà fotografata da Symantec in una sua indagine condotta a livello globale è che circa la metà degli ex-dipendenti sottrae dati aziendali e non ritiene che sia sbagliato farlo.

Un'infografica dello studio Symantec


Già il titolo dello studio riassume bene il concetto: What’s yours is mine, quel che è mio è tuo (sottotitolo: How employees are putting your Intellectual Property at risk). Il sondaggio, portato avanti dal Ponemon Institute nell’ottobre del 2012 su oltre 3.330 intervistati in Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Brasile, Cina e Corea, ha inoltre svelato che il 40% di coloro che hanno cambiato o perso il lavoro negli ultimi 12 mesi prevede di utilizzare i dati riservati dell’ex azienda nel nuovo contesto di assunzione. Atteggiamenti che, però, sono in contrasto con la maggior parte delle policy aziendale in tema di furto della proprietà intellettuale (Ip).

È chiaro dunque come le aziende non riescano a creare una “cultura della sicurezza”. Solo il 38% dei dipendenti afferma che il loro manager vede la protezione dei dati come una priorità di business, e il 51% pensa che sia accettabile prendere i dati aziendali in quanto la propria azienda non applica rigorosamente le policy.

Ancora più alta, il 62%, è la percentuale di coloro che ritengono accettabile trasferire i documenti di lavoro sui personal computer, tablet, smartphone o sulle applicazioni di file sharing online. E la maggioranza dei dipendenti non cancella poi i dati trasferiti, perché non vede nulla di male nel fatto di conservarli.

Fra chi si spinge ancora più oltre c’è poi il 56% di coloro che non considerano un crimine il riutilizzo di dati e  informazioni commerciali presi da un precedente datore di lavoro in un nuovo contesto, concorrente dell’ex azienda. Altra convizione diffusa è quella che la proprietà intellettuale appartenga solo a chi ha creato un certo prodotto o servizio, e non alla società all’interno della quale o per la quale è stato sviluppato. Qualche esempio: il 44% ritiene che un software developer diventi proprietario del codice sorgente creato e quasi la stessa fetta degli intervistati (42%) accetta che il codice in questione sia riutilizzato per altri progetti in società diverse, anche senza autorizzazione.

Il fatto è che i dipendenti non solo credono che sia moralmente accettabile utilizzare le proprietà intellettuali a loro vantaggio quando lasciano una azienda, ma sono anche tendenzialmente convinti che all’azienda stessa questo non importi. Solo il 47% degli intervistati, infatti, afferma che la propria organizzazione interviene quando i dipendenti si appropriano di informazioni sensibili in contrasto con quanto stabilito dalle policy; il 68% dichiara che la propria società non prende le misure necessarie per assicurarsi che i dipendenti non utilizzino le informazioni riservate della concorrenza prese da terze parti.


Come ribaltare la situazione? Le organizzazioni devono non solo applicare sanzioni, ma creare un ambiente e una cultura che promuova la responsabilità dei dipendenti e la protezione dell’Intellectual Property. Diversi i metodi utilizzabili: formare il personale, ma anche applicare accordi di non divulgazione da specificare in modo chiaro nei contratti di lavoro. E poi sfruttare la tecnologia per monitorare eventuali violazioni e azioni sospette, per esempio controllando gli accessi inappropriati a determinate risorse.

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