Pubblicato il 28 dicembre 2018 da Redazione
Il 2018 è stato, ancora una volta, l’anno del cloud computing. Un intero mondo di servizi, un approccio ormai non più nuovo ma che continua a sorprendere: basti guardare gli ultimi dati di Assintel (“Assintel Report 2019”), che per i dodici mesi terminati a fine dicembre indicano in Italia un aumento del 25%, rispetto al 2017, della spesa dedicata a infrastruttura, piattaforma e software “as-a-Service”. A detta dell’associazione, il trend continuerà: accanto all’intelligenza artificiale, alle tecnologie per gli analytics e per i Big Data, il cloud sarà uno tra i segmenti più dinamici dell’Ict, sia dal punto di vista della domanda sia dell’offerta. Ma quale tipo di “nuvola” è destinato a imporsi? Il cloud è ormai diventato una commodity o la scelta tra un fornitore e l’altro fa ancora la differenza? Ce ne parla Francesco Bonfiglio, Ceo di Engineering D.Hub, la controllata di Engineering che gestisce le infrastrutture di data center e i relativi servizi.
Quale modello di cloud è vincente?
Il modello di virtualizzazione della tecnologia, originariamente nella sua componente infrastrutturale, che il paradigma del cloud ha reso così pervasivo nella nostra società, è oggi diventato una commodity. È normale parlare ormai di commoditizzazione dell’It e sembra che questo termine sia un mantra dell’era digitale, in cui tutti vogliono realizzare e vendere prodotti digitali ma nessuno vuole più fare i conti con la tecnologia necessaria. Il significato della stessa parola commodity indica un prodotto di utilità comune, fungibile dal mercato senza particolari differenze tra i diversi fornitori che lo producono. Come a dire che l’uno vale l’altro…
Dunque non conta più la qualità della tecnologia che si produce?
L’argomento è arduo, perché chiunque produca o fruisca tecnologia conosce perfettamente il valore della qualità, delle prestazioni, della velocità, della manutenibilità, della scalabilità. Il discorso vale per un’applicazione, un framework, un’infrastruttura e, non ultimo, un team di specialisti. La virtualizzazione dell’IT, ai suoi livelli, offre enormi opportunità in termini di velocità soprattutto per la realizzazione di nuovi servizi. Questi nuovi servizi possono essere dei breakthrough per una startup che riesca a individuare una soluzione fuori da un contesto specifico che richieda accesso a dati e servizi legacy o storici. Al contrario, per una grande azienda l’innovazione passa attraverso due fattori: il primo riguarda la velocità e agilità offerte da soluzioni di virtualizzazione e commoditizzazione dell’It, come il cloud, la seconda è la capacità di integrare tali soluzioni, di calarle e farle convivere con dati e processi esistenti. Questa dicotomia, che Gartner ci ha insegnato a chiamare bi-modalità dell’It, è ormai da anni riconosciuta come il vero motivo della scarsa velocità di trasformazione e innovazione delle grandi aziende. E la soluzione, al pari del problema, non può essere che bi-modale.
Occorre quindi pensare a un cloud bi-modale e ibrido?
Una soluzione bi-modale e ibrida è costituita da una piattaforma di servizi che combinino cloud pubblico, privato, infrastrutture e sistemi on-premise, team remoti, locali, strumenti di monitoraggio, di brokering, di metering e tutto quanto normalmente costituisce il sistema nervoso infrastrutturale di Infrastructure as-a-Service, ma in modalità multi-Cloud (o multi-fornitore, multi-sorgente). Su questa tematica Engineering D.HUB ha costruito la propria proposizione cloud, che disaccoppia e rende trasparente la complessità dei vari stack di tecnologie esistenti sul mercato. Così facendo permette al cliente di fruire di un approccio di virtualizzazione senza obbligarlo a sostituire da subito le piattaforme tecnologiche esistenti o a vincolarsi a uno specifico fornitore di cloud pubblico, incapace di rispondere a tutte le sue esigenze. Una piattaforma IaaS da sola però non è più in grado di offrire ai clienti quella scalabilità e quella integrabilità necessarie a produrre valore nel mondo digitale.
Possiamo ancora considerare il cloud come un’infrastruttura abilitante?
Per capire il paradigma del cloud bisogna prima comprendere quello del servizio. Una efficace strategia di adozione del cloud non può dunque prescindere da una strategia di passaggio ai servizi, ovvero di trasformazione del portfolio di offerta (interno ed esterno all’aziende) in un vero e proprio catalogo di servizi. Per transitare dall’infrastruttura ai servizi e per sfruttare al meglio l’agilità coud può offrire bisogna integrare applicazioni e infrastrutture, esistenti e future, in modo semplice e poco oneroso, evitando rischi legati alla reingegnerizzazione che rallenterebbero la trasformazione digitale. È necessario, infine, dotarsi di connettori verso le sorgenti interne ed esterne e di motori di analisi, correlazione e interpretazione che permettano nel tempo di raccogliere i dati dall’enterprise, dal mondo open, dalle reti di sensori, da Api (interfacce di programmazione applicativa, ndr) di altri ecosistemi.
In breve, è necessario vedere lo IaaS non più come una soluzione a un vecchio problema, bensì come il mattone di base di una nuova piattaforma di tecnologie e servizi che permetta l’integrazione ibrida (Hybrid Integration Platform) e su cui si possano poi costruire piattaforme di servizi di business. La stratificazione di Deployment Platform, Hybrid Integration Platform ed Ecosystem Platform costituisce una nuova architettura dell’IT del futuro, sulla quale è possibile far coesistere il legacy e il nuovo, l’aspetto funzionale e quello tecnico, il mantenimento dell’esistente e la spinta all’innovazione. Il controllo dell’infrastruttura tecnologica, della sua qualità e delle sue prestazione è possibile, ma non è un vincolo a nuove evoluzioni né un mero elemento di costo operativo.
Francesco Bonfiglio, Ceo di Engineering D.Hub
Il cloud continuerà a crescere, e come?
L’utilizzo di servizi cloud semplicemente a compensazione o sostituzione di infrastrutture esistenti e on-premise, per ridurne il costo operativo, è un’aspettativa che tutti ormai sanno essere eccessivamente semplicistica. Il cloud non può ancora soppiantare le architetture esistenti e tradizionali per gran parte dei workload in cui vengono eseguiti i processi e gestiti i dati “core” di gran parte delle grandi aziende. La crescita della nuvola va di pari passo con lo sviluppo di un’offerta differenziata: è necessario potersi dotare di strumenti di brokeraggio che permettano di cambiare nel tempo i fornitori senza vincolarsi a nessuno, ma anche e soprattutto di far convivere le nuove infrastrutture cloud con quelle esistenti. La mera adozione dello IaaS senza una strategia di integrazione tra piattaforme eterogenee, senza l’impiego di tecnologie e approcci di integrazione come Rpa (per poter facilmente integrare il legacy con il nuovo) come Api manager (per poter usare ed esportare servizi dall’ecosistema crescente sul mercato) e senza una piattaforma capace di integrare cloud, analytics, intelligenza artificiale, Internet of Things e altre tecnologie abilitanti per la creazione e gestione di nuovi servizi di business, rischia di essere limitata nel tempo.
La crescita del mercato vedrà dunque sicuramente un’accelerazione solo se combinata con una strategia di creazione del valore di business attraverso il cloud, e non più solo di riduzione del total cost of ownership, come in origine. In questo senso la crescita del cloud è destinata a essere surclassata dalla crescita delle piattaforme e dei servizi associati per gestirle. Le piattaforme integrate permettono, grazie anche al cloud, di generare un reale valore di mercato producendo ricavi anziché riducendo costi. La grande capacità di creazione dell’uomo è destinata a elevarsi dal livello di scelta della tecnologia a quello di orchestrazione e progettazione di servizi attraverso nuove architetture. Ma proprio questa grande capacità resterà sempre l’unico elemento che non potrà mai essere virtualizzato.
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