22/12/2016 di Redazione

Il “panino olandese” di Google arriva fino alle Bermuda

Bloomberg ha pubblicato nuovi documenti che descrivono il complesso meccanismo finanziario, noto come “Dutch sandwich”, messo in atto da Big G per ridurre la pressione fiscale e risparmiare sul pagamento delle tasse. Secondo l’agenzia nel 2015 sarebbero s

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Circa 3,6 miliardi di dollari di tasse “risparmiati”, considerato soltanto il 2015. Sarebbe questo il bottino fiscale ottenuto da Google grazie ai famigerati metodi “Double Irish” e “Dutch Sandwich”, già impiegati anche da Apple per dirottare verso i paradisi fiscali i ricavi ottenuti dalle proprie sussidiarie europee. La notizia del coinvolgimento di Big G è stata data da Bloomberg, la quale ha spiegato che il colosso di Mountain View avrebbe spostato 15,5 miliardi di dollari alle Bermuda, riducendo nel 2015 l’imposizione fiscale al 6,4 per cento. Secondo lo schema ricostruito dall’agenzia, ottenuto grazie a un documento depositato dalla stessa società presso la camera di commercio olandese, l’enorme quantità di denaro sarebbe partita dalla sussidiaria dei Paesi Bassi dell’azienda, la Google Netherlands Holdings Bv, per arrivare poi ai Caraibi.

La somma trasferita nel 2015 sarebbe del 40 per cento superiore rispetto a quella dell’anno precedente. La filiale olandese di Big G è però una scatola vuota, che serve solo per movimentare tutti i profitti realizzati dal gruppo californiano nel Vecchio Continente. Il metodo del “Dutch sandwich” di Google nasce nel 2004 e funziona, come detto, in sinergia con il “Double Irish”, come insegna Apple.

Le norme di Paesi Bassi e Irlanda, infatti, tassano molto poco le società straniere che decidono di investire e consentono la creazione di questi giochini fiscali. Che, va detto, sono legali ma decisamente borderline. La triangolazione prevede la registrazione dei ricavi in una divisione irlandese, la quale gira tutto nei Paesi Bassi per poi far rimbalzare il denaro nuovamente nell’isola atlantica. Da qui, i soldi partono per qualche paradiso fiscale oltreoceano.

Google ha ovviamente smentito tutto e ha dichiarato di “rispettare le norme fiscali in ogni Paese” dove opera”. Inoltre, già lo scorso febbraio la compagnia aveva contestato i numeri pubblicati dai media relativi alla propria aliquota fiscale, spiegando che le cifre circolate non “riflettevano i metodi attualmente usati” per determinare l’ammontare di tasse da pagare a livello internazionale.

 

 

Circa 12 miliardi dei ricavi registrati da Google l’anno scorso arrivano dalla divisione irlandese, la quale è la principale responsabile della raccolta pubblicitaria al difuori degli Usa. Il resto è fatturato invece a Singapore. Secondo Bloomberg, l’ente più colpito dalle triangolazioni di Mountain View sarebbe il fisco statunitense, il quale si sarebbe visto sottrarre circa 58 miliardi di dollari solo nel 2015.

Ma il vento potrebbe cambiare con l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, che più volte ha affermato di voler riportare in patria i capitali esterovestiti delle aziende. La scorsa settimana il presidente eletto si è incontrato con diversi leader dei gruppi hi-tech, tra cui Tim Cook e la coppia Eric Schmidt e Larry Page (rispettivamente i numeri uno di Apple e Alphabet, holding di Google). Con tutta probabilità, in agenda c’erano anche i temi fiscali.

Big G è sotto pressione anche in vari Stati europei, tra cui l’Italia. L’Agenzia delle Entrate ha ottenuto 320 milioni di euro su 800 di imponibile prodotto nella Penisola nel quinquennio 2008-2013, mentre gli uffici del gruppo a Madrid e Parigi sono stati perquisiti dalle forze dell’ordine per acquisire documenti fiscali.

 

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