L’Italia arranca nell'open innovation, le grandi startup scarseggiano
Uno studio realizzato da Mind the Bridge e Smau svela che fra le società italiane solo una minoranza ha avviato progetti di collaborazione aperta con le startup. Qualcosa sta cambiando, ma il ritardo con l’Europa è evidente.
Pubblicato il 22 ottobre 2019 da Redazione

L’open innovation non è soltanto un affare da Silicon Valley: da Smau Milano, l’annuale fiera dedicata alle tecnologie per il business, sono arrivati i risultati della prima ricerca completa dedicata in Italia al tema dell’innovazione “aperta”, quella che nasce dalla collaborazione fra aziende affermate sul mercato, startup e università. “Open Innovation Outlook Italy 2019", realizzata da Mind the Bridge con il supporto di Smau, evidenzia progressi apprezzabili ma ancora troppo lenti delle imprese italiane. Insomma, non stiamo al passo con le realtà europee, fatta eccezione forse per i settori dell’energia e delle banche, in cui anche le aziende nostrane stanno procedendo abbastanza spedite nell’open innovation.
La metodologia già testata da anni in ricerche condotte su scala internazionale è stata applicata per la prima volta ad aziende italiane, qualche centinaio, operanti in diversi settori di mercato. “Questa metodologia”, spiega Alberto Onetti, chairman di Mind the Bridge, “misura sia fattori interni che consentono l'innovazione, come strategia, organizzazione, processi, cultura, sia azioni concrete attuate e risultati raggiunti, come accelerazione di startup, procurement, co-development, investimenti e acquisizioni. L'analisi mostra, con poche eccezioni, un divario sostanziale tra le aziende italiane e i leader internazionali dell'innovazione".
Lo studio confronta le prime 36 aziende italiane per fatturato con le prime 36 europee sulla base dei due indicatori di innovazione: quella "interna", riguardante strategia, organizzazione, processi e cultura, e quella "esterna", che si concretizza in azioni e risultati. Le società analizzate sono state classificate in quattro gruppi: le newcomer, cioè realtà che si sono appena avvicinate all'open innovation e di conseguenza non dispongono di strutture dedicate; le trailblazer, che hanno avviato azioni di innovazione aperta senza però avere piani e strutture dedicate; le challenger, che si stanno organizzando per lavorare con le startup ma devono ancora produrre risultati; le corporate startup star, cioè società propriamente strutturate e con all’attivo collaborazioni commerciali, investimenti, o acquisizioni di startup.
A che punto siamo?
Tranne poche eccezioni, le aziende italiane si distribuiscono tra le prime due categorie, newcomer e trailblazer. Il confronto con l’estero è inclemente: le 12 imprese “top” italiane ottengono un punteggio medio di 2,7, contro il 4,3 delle 12 migliori europee. Le grandi società sono attualmente i soggetti più attivi nell'open innovation, mentre tra le Pmi si contano solo poche eccezioni. Va detto poi che per la maggior parte delle imprese i progetti avviati riguardano attività di marketing e comunicazione, piuttosto che azioni strutturate con obiettivi chiari, risorse e budget dedicati.
Un ecosistema ancora limitato
"Le imprese innovative crescono due volte più rapidamente”, commenta Pierantonio Macola, Presidente di Smau, “Tuttavia, le aziende europee e italiane investono meno nell'innovazione rispetto ai loro concorrenti internazionali. La collaborazione startup-corporate potrebbe sia aiutare le grandi e medie aziende a innovare e a crescere, sia permettere alle startup di crescere dimensionalmente”.
Una delle debolezze nostrane è la scarsità numerica delle startup di una certa dimensione: in italia si contano solo 208 scaleup, che nel complesso hanno raccolto 1,8 miliardi di dollari di capitali. Siamo ben lontani dagli 11,6 miliardi di dollari investiti nel 2018 nelle startup tecnologiche britanniche, e anche dai 4 miliardi di dollari di quelle tedesche e dai 3,6 miliardi di quelle francesi. “L'ecosistema italiano delle startup è ancora troppo poco maturo per poter supportare i bisogni di innovazione delle nostre imprese, che di necessità devono guardare al resto d'Europa, agli Stati Uniti e a Israele”, conferma Macola.
SMAU
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