Il Coreper, l’organismo che riunisce i rappresentanti permanenti dei 28 governi dei membri Ue, ha dato parere favorevole alla bozza di direttiva di riforma del copyright. Una serie di norme a cui l’Italia ha ribadito il proprio no convinto, non credendola in grado di rappresentare “il giusto equilibrio tra la protezione dei titolari dei diritti e gli interessi di cittadini e imprese”. Il nostro esecutivo si è unito a quelli di Paesi Bassi, Finlandia, Polonia e Lussemburgo, mentre altri due si sono astenuti. Ma l’opposizione di questo blocco non è stata sufficiente per impedire alla riforma di procedere, che il 26 febbraio sarà votata dalla Commissione affari giuridici dell’Europarlamento. Fra marzo e aprile il testo approderà in plenaria per il via libera definitivo, ormai praticamente certo.

Sono soprattutto due gli articoli della direttiva ad aver maggiormente scaldato la discussione a Bruxelles: l’11 è conosciuto come link tax e permette agli editori di chiedere ad aggregatori di notizie e ai siti che pubblicano snippet di articoli di pagare per lo sfruttamento della proprietà intellettuale. La norma prevede la pubblicazione di singole parole o di testi molto brevi.

L’articolo 13, invece, obbliga piattaforme come Youtube e Instagram a integrare filtri per la rimozione automatica di contenuti che violano il copyright. Le modifiche introdotte in corso d’opera escludono però le realtà nate da meno di tre anni, con fatturato annuale inferiore ai 10 milioni di euro e con meno di cinque milioni di utenti unici mensili. Secondo i colossi hi-tech, comunque, la norma introduce responsabilità troppo onerose.

In una nota congiunta, i Paesi contrari alla direttiva hanno evidenziato “il rischio di ostacolare l’innovazione anziché promuoverla” e dell’impatto negativo sulla “competitività del mercato unico digitale europeo […]. Pensiamo che la direttiva manchi di chiarezza giuridica e porterà a un’incertezza giuridica per molti stakeholder e potrebbe violare i diritti dei cittadini”. Fino all’ultimo momento anche la Germania era incerta, con il ministro della Giustizia Katarina Barley orientato verso il no, ma alla fine il governo tedesco ha detto sì.