Un passo indietro
Pubblicato il 03 febbraio 2016 da Piero Aprile Pagine: 1, 2
Sebbene manchi ancora l’ultimo passaggio dell’iter, cioè l’approvazione della Corte di Giustizia, il pericolo di un mancato accordo sembra scampato. Pericolo che, nelle parole del presidente di Anitec (l’Associazione confindustriale dell’Ict e dell’elettronica di consumo), Cristiano Radaelli, pronunciate il 19 gennaio, avrebbe incluso “danni economici”. E similmente si era espresso il garante per la privacy italiano, Antonello Soro, in una lettera a Matteo Renzi in cui si paventavano “forti i rischi di pesanti conseguenze dal punto di vista economico anche per le imprese italiane nel caso di ulteriori ritardi e degli eventuali provvedimenti di blocco dei trasferimenti dei dati che dovessero essere adottati dalle Autorità”.
La questione, lo ricordiamo, era e rimane importante perché circa 4.500 imprese Usa (Facebook, Google, Microsoft, Appple, Yahoo sono solo la punta dell'iceberg), in assenza di una chiarezza giuridica, si sarebbero trovate in seria difficoltà a gestire i dati degli utenti. L’eventualità più drastica: dover interrompere l’invio delle informazioni verso i data center localizzati in patria, o comunque dover accettare il pagamento di sanzioni per aver utilizzato un accordo non più valido quale il Safe Harbor. Un allarme era stato lanciato anche dallo European Centre for International Political Economy: la sua stima era che l’assenza di un eventuale blocco dei trasferimenti avrebbe inciso per lo 0,4% all’anno sul Pil dell’Unione Europa.
Molte aziende hi-tech, per dribblare il problema, hanno autonomamente deciso di realizzare dei "report della trasparenza" in cui rendono note le richieste dei governi di visionare dati. Soluzione che però non ha trovato il gradimento delle autorità americane, secondo cui non è possibile rendere obbligatoria questa pratica. Altre aziende hanno deciso di percorrere strade diverse, avviando data center in Europa (come ha fatto Microsoft in Germania, in collaborazione con Deutsche Telekom) o pensato a nuove tipologie di contratti con cui regolare i rapporti con gli utenti. Contratti che, però, potrebbero essere impugnati dai garanti della privacy.
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- Pagina 1. Nuove regole per l’uso dei dati, scatta l’ora del Privacy Shield
- Pagina 2. Un passo indietro
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