30/01/2017 di Redazione

Trump blocca gli immigrati e Google interviene con un fondo

L’ordine esecutivo del numero uno della Casa Bianca ha colpito i lavoratori di sette Paesi a maggioranza musulmana. Big G ha deciso di donare due milioni di dollari a quattro organizzazioni per i diritti civili. In campo anche Uber e Lyft, ma la piattafor

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Una parte del mondo hi-tech americano è in rivolta contro Donald Trump. Per motivi di sicurezza e di prevenzione al terrorismo, il neopresidente ha firmato pochi giorni fa un ordine esecutivo per rafforzare all’estremo i controlli sull’immigrazione, bloccando tra le altre cose l’ingresso nel Paese di cittadini di sette Stati a maggioranza musulmana. Un provvedimento contestatissimo, sia delle associazioni per i diritti civili ma anche da molte aziende. Non sono quindi esclusi colossi come Google, che ieri ha deciso di creare un fondo anticrisi da due milioni di dollari per aiutare le persone colpite dall’ordine esecutivo di Trump. La somma potrebbe anche raddoppiare grazie alle donazioni spontanee dei dipendenti di Big G.

Il denaro, che alimenterà la più grande campagna di Google in questo campo, verrà girato a quattro organizzazioni: American Civil Liberties Union, Immigrant Legal Resource Center, International Rescue Committee e Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). I lavoratori stranieri presenti sul suolo statunitense sono milioni, soprattutto in un polo attrattivo come quello californiano.

Secondo il Silicon Valley Index, infatti, il 74 per cento dei 25-44enni che lavora in quest’area è nato al difuori degli Usa. Ma Google non è l’unica a muoversi. Uber, per esempio, ha annunciato la creazione di un fondo di difesa legale da tre milioni per aiutare i propri driver non americani colpiti dal provvedimento. Lyft, invece, ha messo sul piatto un milione.

I cittadini di Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen che al momento della firma dell’ordine non si trovavano negli Usa non potranno rientrare nel Paese per i prossimi novanta giorni. “Questo significa che non potranno guadagnare e supportare le loro famiglie”, ha scritto su Facebook il numero uno di Uber, Travis Kalanick.

 

Sundar Pichai, Ceo di Google

 

Ma dal punto di vista dell’immagine per la piattaforma di ride sharing nata a San Francisco non è un bel momento. Pur essendo decisamente contro all’ordine di Trump, Kalanick è sotto accusa per il proprio endorsement al neopresidente, con tanto di campagna Twitter con hashtag #DeleteUber: lo scorso dicembre il Ceo di Uber, insieme al numero uno di tesla Elon Musk e ad altri imprenditori, è stato nominato consigliere economico del tycoon all’interno del Strategic and Policy Forum.

Come se non bastasse, Uber è finita nel vortice delle polemiche per non aver appoggiato pubblicamente lo sciopero di un’ora indetto il 28 gennaio dall’associazione di categoria dei taxi di New York. Non solo: l’azienda ha eliminato anche il sovrapprezzo dalle corse, che scatta nei momenti di maggior richiesta. Una scelta interpretata da molti come uno sfacciato tentativo di cavalcare economicamente lo sciopero dei taxi “regolari”.

I rapporti tra il mondo tecnologico Usa e Trump sono altalenanti. Lo scorso luglio un drappello di 145 nomi di spicco del panorama hi-tech ha firmato un appello contro la politica dell’allora candidato repubblicano alle presidenziali. Una volta eletto, però, Trump ha cercato di intavolare un dialogo più costruttivo con l’industria del silicio, incontrando a New York diversi numeri uno (e due) della Silicon Valley.

Il successore di Obama ha discusso con Eric Schmidt e Larry Page (Alphabet), Tim Cook (Apple), Satya Nadella e Brad Smith (Microsoft), Jeff Bezos (Amazon), Chuck Robbins (Cisco), Sheryl Sandberg (direttore operativo di Facebook), Elon Musk e Safra Catz, co-Ceo di Oracle e chiamata dal neopresidente nel proprio team di transizione.

 

Travis Kalanick, Ceo di Uber

 

Non è dato sapere come proseguirà la questione, ma è un dato di fatto che Trump non abbia mai nascosto la volontà di riportare in patria capitali e produzione dei big tecnologici. Si dovrà vedere come la prenderanno le aziende quando verranno toccate nel portafoglio: si piegheranno al volere dell’inquilino della Casa Bianca o gli dichiareranno guerra?

 

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