30/07/2018 di Redazione

Facebook, crollo in Borsa e fake news causano nuovi grattacapi

Un azionista ha fatto causa all'azienda di Menlo Park dopo il crollo del titolo. Al termine di un anno di indagini su Russiagate e Cambridge Analytica, i parlamentari britannici parlano di “crisi della democrazia” e di velo squarciato sul “mondo segreto”

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Quest'anno è probabile che diversi dirigenti di Facebook, invece di andare in vacanza, saranno impegnati a risolvere alcuni problemi legali ed economici, conseguenza delgli ormai famigerati casi del Russiagate e di Cambridge Anaytica. Disinformazione e indebita diffusione dei dati personali degli utenti sono le pietre della discordia, ed evidentemente né la lunga battaglia intrapresa contro le fake news, né le correzioni ai regolamenti pro-privacy sono bastati a placare gli animi. Dopo gli ultimi conti trimestrali (con fatturato e utenti ancora in ascesa, ma margini di profitto in calo) la società è precipitata in Borsa: le dichiarazioni del chief financial officer, David Wehner, sulla prospettiva di almeno due anni di vacche magre hanno spaventato gli investitori. E il calo del titolo di circa il 19% si è tradotto nell'evaporazione di circa 120 miliardi di dollari di valore.

 

Per questo qualche giorno fa un azionista di Facebook, James Kacouris, si è rivolto a un tribunale federale di Manhattan per presentare ricorso e chiedere un risarcimento danni, di entità non nota. Come riporta Reuters, l'accusa rivolta a Zuckerberg e Wehner è quella di aver fatto dichiarazioni fuorvianti e taciuto la verità sul calo di fatturato e sull'erosione dei margini. Fino al disvelamento dei conti trimestralli e del relativo commento, di fronte ai quali il mercato è rimasto scioccato. Contro la società di Zuckerberg sono già state avviate decine di class action riguardanti la cessione dei dati a Cambridge Analytica e ora il Kacouris mira a ottenere tale status anche per la propria causa, contando sul sostegno di altri investitori scontenti.

 

Come se non bastasse, c'è anche chi pensa di caricare Facebook di altri problemi e responsabilità. La commissione Digitale, cultura, media e sport del parlamento britannico, impegnata a indagare sul tema delle bufale online, ha presentato un documento in cui si descrive l'opera di manipolazione dell'opinione pubblica perpetrata da soggetti vari attraverso i social network, specie per scopi politici. Nel testo si afferma che piattaforme come Facebook e Twitter dovrebbero essere considerate responsabili dei “contenuti fuorvianti e dannosi” pubblicati dagli utenti.

 

L'indagine parlamentare era cominciata circa un anno fa sull'onda della scoperta di una rete di profili falsi e di pagine di disinformazione (in particolare, la famigerata “agenzia di marketing” Internet Research Agency) che pubblicavano, condividevano e commentavano false notizie. Tra gli obiettivi, screditare Hillary Clinton e il suo partito per favorire Donald Trump nella corsa elettorale, ma anche spingere i cittadini britannici a votare in favore della Brexit. Nel frattempo, di fronte al fenomeno delle bufale non si può dire che Facebook sia rimasta con le mani in mano, sguinzagliando gli algortimi di intelligenza artificiale per fare una prima scrematura dei contenuti sospetti e attivando il fact-checkin là dove è necessario l'intervento umano.

 

 

Le dichiarazioni del Cfo hanno causato sgomento, ma Facebook è ancora in crescita nel fatturato

 

Dopo i troll russi ha però continuato a piovere sul bagnato con Cambridge Analytica, caso che ha fornito nuovo materiale d'indagine ai parlamentari britannici. “Siamo di fronte a niente meno che una crisi della nostra democrazia”, ha affermato il parlamentare e presidente della commissione Damian Collins, spiegando che l'indagine ha “squarciato il velo sul mondo segreto dei colossi tecnologici, che hanno agito irresponsabilmente in merito alle grandi quantità di dati raccolte dai propri utenti”. E siamo solo all'inizio, a detta di Collins: “Credo che quello che abbiamo scoperto finora sia solo la punta dell'iceberg”. L'investigazione ha preso in esame diverse piattaforme social, ma una in particolare è chiaramente nel mirino: nel report il nome di Twitter compare 23 volte, quello di Google 13 e quello di YouTube appena cinque, mentre Facebook viene citato ben 236 volte.

 

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