07/11/2011 di Redazione

Le start up italiane: come nascono e chi vi investe

Dalla survey della Mind the Bridge Foundation emerge il profilo delle nuove iniziative imprenditoriali in cerca di finanziamenti. Delle 15 semifinaliste dell’edizione 2011 del Boot Camp, circa la metà si affida al bootstrapping mentre solo il 7% a busine

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In generale sono maschi, ma la presenza femminile è lievemente in crescita. Trentaduenni, risiedono al Centro (nel 39% dei casi) o al Nord Italia (35%), sono laureati e spesso in possesso di un master o di un dottorato di ricerca. Nonostante le difficoltà il loro numero aumenta sempre di più.

Si stima siano almeno un migliaio le richieste di finanziamento che i venture capital fund e i business angel network raggruppati intorno al VCHub, il gruppo informale che raccoglie i principali investitori italiani, ricevono ogni anno. Un flusso che, pur in assenza di dati analitici, risulta in crescita significativa negli ultimi anni.

 


Quelli di cui sopra sono i principali dati emersi dalla survey della Mind the Bridge Foundation che quest’anno, con il supporto scientifico del CrESIT dell’Università dell’Insubria di Varese, ha voluto analizzare il mondo delle start up attraverso un’analisi dei partecipanti annualmente alla sua Business Plan Competition.

La manifestazione che si è svolta a Milano nei giorni scorsi ha visto sfilare 15 start up che hanno presentato i loro progetti a una platea di potenziali investitori. Tra una quindicina di giorni ci saranno i risultati della competizione che ha visto partecipare aziende di neo costituzione che nel 69% dei casi sono nate da imprenditori in cerca un finanziamento dalle società di venture capital. Il dato sale fino al 76% se si restringe l’analisi alle società maggiormente strutturate.

“Una percentuale importante (del 9%, ndr) e in crescita nel tempo di start up ha deciso di costituirsi all’estero – commenta Alberto Onetti, Presidente della Mind The Bridge Foundation. -  Questo dato sembra segnalare una carenza di attrattività del nostro paese. Dal momento che oltre il 40% è rappresentato da progetti di impresa non ancora costituiti in società, oggi come non mai diventa fondamentale investire nella ricerca e nella formazione universitaria se si vuole avere un ritorno in termini di nuove imprese innovative e se si vuole evitare, oltre a fughe di cervelli, anche un massiccio corporate drain".

Al momento, il 40% del panel analizzato ha dichiarato di aver reperito fondi attraverso azioni di “bootstrapping” (risparmi dei fondatori e fondi raccolti all’interno del nucleo familiare o della rete di conoscenti, meglio noto come sistema “family, friends and fools”), mentre un 8% ha avuto accesso anche a “grant” (finanziamenti in genere destinati al supporto di attività di ricerca in ambito universitario) per coprire parte dei costi di sviluppo dell’idea nelle fasi iniziali.



Il 23% ha trovato invece finanziamenti da investitori terzi, in prevalenza “seed” (fondi di investimento collegati ad attività di incubazione e business development, 15%) e solo in misura più limitata da venture capital (fondi di investimento specializzati nel capitale di rischio, 4%) e da business angels (tipo di investimenti in forma associata, 4%). Restringendo infine l’analisi alle società già costituite (59%, contro un 41% di progetti di impresa) crescono le percentuali di accesso a capitali tramite seed (21%), business angels (6%) e venture capital (6%).

Se si limita l’analisi alle 15 semifinaliste dell’edizione 2011, si nota come le fonti di funding siano ancora più articolate ed evolute: oltre al bootstrapping (47% dei casi) e a grant (20%), il 40% circa dichiara di aver avuto accesso al seed financing, il 7% a business angels ed il 13% a venture capital. Il capitale in media raccolto dalle startup ammonta a circa 71 mila euro (dato che presenta tuttavia un’elevata varianza) ma, se si considerano le sole Top 15, il dato quasi raddoppia, salendo a 136 mila euro circa, a testimonianza di come i progetti migliori tendano a trovare maggiore accesso a capitali.

Un founder di startp up su cinque è alla sua seconda esperienza imprenditoriale
Oltre ai soldi, componente sicuramente vitale, molte start up hanno l’esigenza di trovare un partner strategico. Il 50% degli intervistati ha infatti l’esigenza di affidarsi a qualcuno che possa supportare la propria impresa nei processi di sviluppo della “business idea” e portare le competenze al gruppo imprenditoriale esistente. Tendenza che trova conferma anche nell’analisi dei “company seeks” per le Top15. Difatti se tutte le migliori startup confermano di essere alla ricerca di capitali, una percentuale molto ampia, il 40% per la precisione, cerca accordi strategici di partnership.

Dopo i soldi e i partner, però, è molto facile ci sia anche l’esigenza di spostarsi. Alleanze, contatti, e conoscenza maturate negli anni servono infatti a costituire un ambiente più favorevole e, non a caso, le start up migliori sono quelle con gruppi imprenditoriali con una propensione alla mobilità superiore rispetto alla media.

I dati mostrano come i talenti siano attratti da università con alta reputazione e un’offerta di programmi di formazione di eccellenza di cui la nascita di start up risulta una naturale conseguenza. Di qui la criticità di investire nella ricerca e formazione universitaria se si vuole avere un ritorno in termini di nuove imprese innovative. Il popolo degli “start upper” manifesta una spiccata mobilità, anche internazionale.



L’11% dei  “wannabe?entrepreneur”, una volta ottenuta la laurea triennale, decide di spostarsi verso altre regioni italiane (6%) o all’estero (5%) per proseguire gli studi con un master di primo livello e, tra coloro che inseguono un dottorato di ricerca o un Mba, la percentuale di spostamento sale al 40%: il 20% va all’estero, mentre il restante 20% si muove verso altre regioni italiane.

Nell’85% dei casi l’ambito di operatività è rappresentato dal web e dall’Ict. Numericamente inferiore risulta invece il ruolo delle imprese operanti nelle clean technologies (10%) e in ambito biotech/life sciences (5%). I dati su età media e formazione segnalano inoltre come quello dell’imprenditore sia un mestiere che si impara sul campo, che richiede conoscenze di alto livello ed esperienza: l’80% degli startupper, prima dell’avvio della propria attività imprenditoriale, ha lavorato in azienda mediamente per 6/7 anni. Nel 33% dei casi tale esperienza lavorativa è stata svolta all’estero. Questa percentuale supera il 50% se si considerano le Top15 startup.

“Da non sottovalutare il fatto che un founder su cinque è alla sua seconda startup – questa la fotografia di sintesi scattata da Marco Marinucci, fondatore di Mind the Bridge – e che nel 20% dei casi la precedente esperienza imprenditoriale è stata fatta all’estero. Tra le Top15 la percentuale di serial entrepreneur sale al 35%, così come la quota di startup incorporate all’estero (4 su 10). Da segnalare come il 75% delle aziende precedenti siano ancora attive e come, nel 61% dei casi, gli imprenditori continuino ad esservi coinvolti. Un fatto che sottolinea due aspetti che caratterizzano fortemente la figura dello 'startupper', ovvero l’importanza del 'pivoting' e il carattere seriale del 'mestiere dell’imprenditore' che si perfeziona solo facendolo”.
 

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