La lotta alle bufale online è un'opera meritevole, quasi un obbligo per chi come Google e Facebook orienta gran parte del traffico Web e condiziona pesantemente i flussi dell'informazione online. E certo la società di Mountain View non vuole sfigurare accanto al social network di Mark Zuckerberg, impegnato su più fronti a combattere le fake news. Anche così si spiega la nuova collaborazione che legherà Big G all'International Fact-Checking Network (Ifcn), iniziativa del Poynter Institute fra i cui sostenitori spiccano testate e agenzie come Associated Press, Washington Post, PolitiFact, Factcheck.org, la tedesca Correctiv, la brasiliana Aos Fatos e Africa Check.
L'Ifcn organizza una conferenza annuale sui temi della verifica delle fonti e dell'accuratezza dell'informazione, oltre a finanziare iniziative e a organizzare corsi di giornalismo investigativo. Ha elaborato, inoltre, un insieme di principi deontologici per il settore dei media. La nuova collaborazione con Google è mirata su tre obiettivi: aumentare il numero delle organizzazioni di fact-checking attive nel mondo, spingere sempre più soggetti verso l'adozione del codice di condotta, e infine sviluppare e pubblicare strumenti di verifica anti-bufala gratuiti. L'impegno della società proprietaria del popolare motore di ricerca e della piattaforma News si sostanzierà con l'organizzazione di corsi e workshop e con il contributo tecnico di informatici di Big G (che parteciperanno al summit annuale dell'Ifcn).
Il nuovo annuncio si colloca in un percorso lungo e difficile, iniziato circa un anno fa con la sperimentazione dell'etichetta “Fact Check” all'interno di Google News. Dopo qualche mese di sperimentazione, la scorsa primavera il tag è stato portato in tutte le edizioni locali del servizio e poi, progressivamente, anche fra i risultati del motore di ricerca.
In questa non facile impresa di lotta alla disinformazione, a Big G è però anche capitato di commettere errori involontari, con conseguenti figuracce: la settimana scorsa il New York Times ha denunciato la presenza di contenuti sponsorizzati forniti da Google, contenuti che eran chiaro veicolo di notizie false e titoli acchiappa-click (dal gossip su personaggi della Tv statunitense, alla decisione di Melania Trump di abbandonare la Casa Bianca). Dopo aver catturato l'attenzione dell'utente con fotografie e titoli a effetto, i link conducevano non su siti di informazione giornalistica bensì su annunci pubblicitari di prodotti cosmetici. Quel che è più ironico, queste bufale erano state pubblicate dagli strumenti automatici di advertising di Google proprio su due siti di fact-checking, Snopes e PolitiFact.