12/03/2013 di Redazione

Pmi italiane: voglia di innovazione, poche risorse

Secondo i dati dell’Istat e del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, le imprese italiane sono al di sotto dei valori europei per quanto riguarda la spesa in ricerca & sviluppo e la registrazione di brevetti. Il 54%, tuttavia, ha introdotto inno

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La voglia di innovazione traina le imprese italiane. Una voglia che non sempre si traduce in realtà, ma che – numeri alla mano – posiziona il nostro Paese al di sopra della media europea quanto a percentuali di aziende che, nel triennio che va da inizio 2008 a fine 2011, hanno introdotto innovazioni di prodotto, di processo, organizzative o di marketing: il 54%, contro il 49% della media Ue. È questo un dato positivo, uno dei pochi, che spicca all’interno dell’ultimo rapporto dell’Istat e del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) sul Benessere equo e sostenibile.

Il rapporto fra Pil e spesa in ricerca e sviluppo


La situazione di fondo, infatti, vede il Belpaese posizionarsi al di sotto della media dell’Europa a 27 per una serie di indicatori. Il primo, e forse più importante, è il rapporto fra spesa in ricerca & sviluppo e Pil: in Italia stabile all’1,3%, a fronte di una media europea del 2% e di un obiettivo comunitario fissato al 3%. Percentuale che dovrà essere raggiunta entro il 2020, e che attualmente è già superata solo da una triade Paesi virtuosi, Svezia, Finlandia e Danimarca.

Nel 2010 l’investimento in ricerca e sviluppo dei Paesi Ue ha toccato i 247 miliardi di euro, con un incremento di circa 53 miliardi (+ 27%) rispetto al 2004, e con un contributo italiano che appare sottodimensionato rispetto a quanto dovrebbe. Con una spesa inferiore ai 20 milioni di euro (19.625 milioni), nel 2010 l’Italia ha coperto l’8% del totale degli investimenti in ricerca e sviluppo dei 27 Paesi Ue, a fronte di un Pil pari al 12,6% del totale europeo, laddove la Germania contribuisce al dato globale per il 28,3%, la Francia per il 18% e il Regno Unito per il 12,5%. Il perché di questi numeri? Lo studio parla di una “debolezza strutturale italiana” riferendosi allo scarso peso dei finanziamenti privati in ricerca industriale, che invece solo uno degli elementi chiave (dovranno costituire i due terzi del totale) per raggiungere l’obiettivo del 3% di rapporto fra investimenti e Pil, fissato per il 2020.

Discorso parallelo è quello che riguarda la registrazione di brevetti. In Italia questa attività è  è andata peggiorando nel corso del periodo 2004-2010: infatti, dopo un iniziale aumento, a partire dal 2007 il numero di richieste presentate all’European Patent Office (Epo) per milione di abitanti è progressivamente diminuito, passando dagli 85,1 brevetti del 2004 ai 73,3 del 2010. Una tendenza che ha caratterizzato l’intera Unione, passata dai 112,8 brevetti per milione di abitanti del 2004 ai 108,6 del 2010, con le eccezioni di Svezia, Danimarca, Estonia e Repubblica Ceca in positiva controtendenza.

Altro indicatore del livello di “benessere hi-tech” dello Stivale è il numero dei lavoratori del settore tecnologico, etichetta che nel rapporto in esame considera non solo l’Ict ma anche il manifatturiero ad alta tecnologia e i “servizi ad elevata intensità di conoscenza”. Nel 2011 l’Italia, con il 3,3% di occupati nei settori più innovativi, presenta un valore inferiore a quello medio europeo (3,8%), e nell’ambito dell’Ue a 15 registra uno dei livelli più bassi, superiore solo a Portogallo e Grecia.


Inoltre, tra il 2008 e il 2011 la quota percentuale di addetti nei settori ad alta intensità di conoscenza nello Stivale si è ridotta di uno 0,3% annuo. Come prevedibile, prevale la componente maschile: la quota di occupate nei settori high-tech sul totale delle lavoratrici è del 2,5%, rispetto al 3,8% del medesimo valore calcolato sugli uomini.

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