03/11/2025 di redazione

La data strategy oltre le tecnologie: l’approccio fa la differenza

Per trasformare la gestione dei dati in azienda servono impegno, progettualità e consapevolezza. La visione di Matteo Longoni, business development manager di Axiante.

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C’è un momento in cui i dati smettono di essere numeri e diventano direzione: quando entra in gioco la data strategy. Un percorso fatto non solo di scelte tecnologiche ma anche (e innanzitutto) di cultura, impegno, coinvolgimento e progettualità. Oggi, rispetto al passato, nelle aziende il modo di trattare i dati è cambiato sia dal punto di vista tecnologico sia da quello, per così dire, culturale. Come intuibile, l'intelligenza artificiale è un ingrediente in questa evoluzione, ma adottare il giusto approccio è ancor più importante. Ne abbiamo parlato con Matteo Longoni, business development manager di Axiante, recentemente entrato in azienda con il compito di favorire l’acquisizione di nuovi clienti, la creazione di partnership e l’espansione del portafoglio d’offerta.

Come è cambiata, nelle aziende, la gestione dei dati? E come è il cambiato il modo in cui si cerca di trarne valore?

Nel mondo dei dati un tempo si parlava di analisi statistica, poi diventata Big Data poi machine learning, e oggi intelligenza artificiale, generativa e infine agentica. Non sono soltanto evoluzioni di terminologia o a volte marketing: c’è stato un sottostante un cambio di paradigma tecnologico, che ha portato a un mutamento di scenario. Le aziende hanno capito di non potersi più basare soltanto sui propri dati interni, quella fase è ormai superata e si è compreso che dati di natura esterna possono essere preziosi per migliorare il business. E bisogna attrezzarsi per sfruttarli.

C’è stato, quindi, un cambiamento per così dire concettuale: oggi le espressioni chiave sono data sharing e data collaboration, modalità volte a mettere al centro la condivisione e la cooperazione, migliorare i flussi di dati e i processi che li riguardano, all’interno di singoli dipartimenti, dell’intera azienda o anche con la catena di fornitori e partner, come accade ad esempio nella supply chain. Dal punto di vista tecnologico, il cambiamento è simboleggiato dalle data platform, di cui credo qualsiasi azienda abbia ormai sentito parlare. Una cosa però è sapere che le data platform esistono, un’altra è saperle implementare. Fondamentale è definire innanzitutto una data strategy, punto di partenza necessario per sviluppare progetti basati sui dati.

Quali difficoltà affrontano le aziende nella realizzazione di una data platform aziendale?

Le difficoltà, in realtà, cambiano molto da settore a settore. In ambiti come il FinTech o i servizi digitali si è partiti per primi: i processi sono già fortemente digitalizzati e si prestano a molti casi d’uso, che oggi hanno definito un modo standard di lavorare. In questi settori c'è ormai una buona maturità culturale, si conosce il valore dei dati e si è pronti a investirci. In altri ambiti, come nel manifatturiero, il contesto è diverso: qui si parla di raccogliere dati in real time, dati storici, temi legati l'Internet of Things e l'industria 4.0, o di informazioni raccolte lungo tutta la supply chain, come per il data sharing a cui accennavo. Si capisce bene come il tema della data platform richieda sicuramente specificità proprie nell'ambito manifatturiero, rispetto ai servizi finanziari, per esempio nell’area della gestione del rischio di investimento.

Tuttavia, al netto di queste differenze e specificità settoriali, in generale la difficoltà principale che osserviamo sul mercato è un’altra: è essenzialmente la mancanza di una cultura su come poter impostare e portare avanti un progetto di data strategy davvero integrato in azienda. Ho visto tanti progetti fallire, purtroppo, perché slegati da un’integrazione in azienda. Dobbiamo infatti fare un distingue: una cosa è la mancanza di skill tecniche, aspetto su cui un partner esterno per l’azienda può essere abilitante; altra cosa è la mancanza di una cultura sui dati, che è problematica, perché crea delle distanze fra aspettativa e fattibilità di un progetto. Alle aziende serve un aiuto dall’esterno anche e proprio su questo, e molto spesso è il caso in cui mi trovo.

Matteo Longoni, business development manager di Axiante

Matteo Longoni, business development manager di Axiante

Riscontrate anche complessità legate alle tecnologie?

Poiché non esiste una soluzione perfetta universale, parte del problema è capire quale sia la tecnologia migliore. Un esempio, il caso in cui le aziende vogliono andare in cloud, ma spesso non sanno che cosa ciò comporti: si rivolgono a noi anche per capire le implicazioni tecniche, le differenze dall’on-premise, l'impatto sui processi e i costi di una migrazione, che possono lievitare qualora sia necessario reingegnerizzare i processi. Un’altra complessità comune è la frammentazione degli applicativi: il cloud in questo caso diventa un alleato come accentratore di governance e unificatore di applicativi sviluppati in epoche diverse. Il nostro intervento è proprio questo, di risolvere la frammentazione, di unificare gli strumenti tecnologici in un unico set coerente.

In tutto questo, che ruolo ricopre l’intelligenza artificiale?

In una data strategy l’intelligenza artificiale gioca un ruolo di potenziatore, a diversi livelli. Le architetture di data sharing richiedono molta automazione e anche soluzioni sofisticate di governance, e in questo l'AI è di fondamentale aiuto a livello appunto di automazione. Agisce, inoltre, a livello di qualità del dato, realizzando controlli sulla coerenza, sull’affidabilità dei dati, sul fatto che siano in real time e accessibili agli utenti di riferimento. Ma più di tutti, l'AI agisce potenzialmente a livello di analisi dei dati.

Non mancano alcune criticità: sicuramente l’adozione dell’AI richiede nuovi approcci di governance, pensiamo per esempio alla necessità di regolare l'utilizzo dei dati nel training degli algoritmi. D’altro canto, l'AI stessa aiuta nella governance dei dati e dei processi, perché può efficacemente prevenire o identificare falle di sistema, accessi non autorizzati, interruzioni dei flussi di dati, robustezza delle procedure. Sebbene negli ultimi anni si parli soprattutto di AI generativa, l'intelligenza artificiale predittiva resta fondamentale a livello di analisi nelle aziende, per fare analisi di scenario, previsioni e valutazioni quantitative delle scelte strategiche a supporto dei processi decisionali.

Come affrontate questi discorsi nelle aziende a cui vi rivolgete? Qual è il vostro approccio per le data strategy?

Il tema della data strategy non è confinato all’IT, anche se spesso viene considerato ancora tale. Invece è un tema “core”, che impatta su tutti i dipartimenti di un’azienda: dall’IT alle risorse umane, dal reparto finance e al top management, dalla supply chain alle vendite. Questi progetti richiedono, dunque, un commitment strategico in primis dall’alto.

Tipicamente i nostri interlocutori sono i CIO, se il progetto di data strategy è un’iniziativa dell’IT, oppure i manager dei dipartimenti coinvolti nello sviluppo. Non è infrequente, però, che si parli direttamente con i C-level, e questo è il nocciolo della questione. Il nostro approccio è molto focalizzato sul coinvolgimento e sull’educazione sul tema, perché per un’azienda è innanzitutto importante capire che cosa comporti un progetto di questo tipo. La data strategy non è un obbligo e comporta dei costi, quindi, come tutti gli investimenti aziendali, il primo aspetto da considerare in questa iniziativa è business. Ed è importante che l’azienda tutta abbia ben chiare le proprie motivazioni e gli obiettivi.

Quali sono i passi successivi?

Aiutiamo i clienti anche nella definizione degli indicatori di performance chiave, e non è un aspetto banale: poiché l’iniziativa permea diversi livelli aziendali, similmente esistono KPI di valutazione di diverso livello. Sul piano dell’’IT ad esempio si lavora su KPI tecnici, quali il tempo di pubblicazione di un report, la velocità con cui le pipeline processano i dati, eccetera. Questi si riflettono su un livello più alto, che è quello dell’utilizzo, dunque sui KPI di analytics che per esempio misurano “quanto spesso gli utenti dell’area marketing aprono i report”. Da ultimo, il KPI più importante (e il più difficile da quantificare) è quello di business: quanto mi fa guadagnare l’iniziativa, in termini di revenue aggiuntive, margine, cost saving. Aiutiamo nella definizione (e nel controllo) di questi indicatori alla base della misura degli effetti dell’iniziativa per i nostri clienti.

Dal punto di vista progettuale e implementativo, adottiamo l’approccio che da sempre ci caratterizza, ovvero impostiamo le attività in modo da minimizzare i rischi e i disagi, procedendo per gradi e fornendo release intermedie, facendo evolvere i sistemi più che interromperli per sostituirli. In questo modo le aziende possono valutare gli impatti del progetto già a distanza di qualche settimana o mese, senza dover aspettare fino al completamento del lavoro. Insomma, la data strategy è un’opera complessa, ma la buona notizia è che non si deve fare tutto subito e tutto in una volta: si può partire da un’area o da un caso d’uso, per poi allargarli ad altri ambiti. L’importante è però avere già una visione completa su dove si voglia arrivare: quindi obiettivi chiari, visione condivisa e commitment trasversale ci devono essere, anche in un approccio graduale.

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