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Smart working, il controllo a distanza fa fuggire i dipendenti

Una ricerca di Vmware e Vanson Bourne svela che il 70% ha adottato o pianifica di adottare strumenti per la sorveglianza a distanza dei telelavoratori. Ma i dipendenti non gradiscono.

Pubblicato il 30 novembre 2021 da Redazione

Il controllo a distanza dello smart working, con strumenti che si accertano che il dipendente sia concentrato sulle attività lavorative (come webcam o keylogger), è uno strumento a doppio taglio. Da un lato le aziende hanno una effettiva esigenza di non perdere produttività nel nuovo contesto di lavoro ibrido, ma dall’altro rischiano di provocare scontentezza e disagio nei dipendenti. Una nuova ricerca commissionata da Vmware a Vanson Bourne svela il difficile equilibrio tra le necessità di controllo, da un lato, e quelle di libertà e privacy dall’altro. L’indagine (“The Virtual Floorplan: New Rules fot a New Era of Work”, realizzata su 7.600 responsabili IT, responsabili delle risorse umane, manager e dipendenti d’azienda intervistati tra luglio e agosto 2021) ha evidenziato innanzitutto che il 92% delle imprese ha almeno una parte di lavoratori in smart working, percentuale che è cambiata ben poco rispetto al 94% del periodo di picco della pandemia nel 2020. Il 74% delle aziende prevede di non abbandonare il lavoro ibrido almeno per il prossimo anno.

In generale, tra i dipendenti c’è un alto livello di apprezzamento per gli strumenti tecnologici che permettono loro di lavorare da casa. Tra gli intervistati italiani, l’85% dei dipendenti concorda sul fatto che le tecnologie (email, videoconferenze, servizi cloud, eccetera) permettano di lavorare in modo più efficiente di prima. 


Ma la maggior parte delle aziende, vuoi per dimensione o vuoi per cultura, non si fida a lasciare totalmente liberi i propri collaboratori. Attualmente il 70% delle imprese del campione ha già messo in atto o sta pianificando di implementare misure di sorveglianza per monitorare la produttività delle persone nei giorni in cui lavorano da casa. Le misure adottate includono il monitoraggio dell'attenzione tramite webcam (usata dal 30% delle aziende in Italia e dal 28% a livello globale), il monitoraggio delle email (33% e 44%), la sorveglianza video (27% e 29%) e i software keylogger (19% e 26%).

Questi metodi però possono mettere a disagio i collaboratori ed erodere il rapporto di fiducia tra dipendenti e aziende. A conferma di ciò, lo studio evidenzia che le aziende che hanno adottato o annunciato misure di monitoraggio a distanza registrano livelli di turnover del personale sensibilmente più alti della media. In sostanza, incoraggiano i dipendenti a scappare. A detta di Vmware, conviene piuttosto puntare altri metodi e strumenti in grado di favorire la produttività, anziché sul controllo a distanza. Così ha fatto l’82% delle aziende italiane, chi organizzando regolari incontri con i manager per la valutazione dei risultati (il 52% del campione italiano), chi discutendo su come distribuire i carichi di lavoro (il 46%) e chi adottando nuovi software di gestione dei progetti (46%). 

Esiste comunque, in quest’era di “nuova normalità” ancora non assestata, un problema di trasparenza: il 23% dei dipendenti non sa dire se la propria organizzazione abbia implementato o meno sistemi di monitoraggio dei dispositivi per controllare la loro produttività. "Gli strumenti di Digital Workspace permettono alle persone di lavorare da qualsiasi luogo e la nostra ricerca mostra che i dipendenti si sentono più apprezzati e sentono di avere maggior fiducia da parte del proprio datore di lavoro”, ha commentato Shanker Iyer, senior vice president e general manager, End-User Computing di Vmware. “La mancanza di trasparenza e la misurazione delle prestazioni di nascosto possono rapidamente erodere la fiducia dei dipendenti e portare i talenti ad abbandonare le aziende, in un mercato delle competenze altamente competitivo e stimolante".

 

 


 

“Il concetto di lavoro ha subìto un cambiamento che era atteso da tempo, un cambiamento che riguarda soprattutto la mentalità”, ha sottolineato il country manager italiano, Raffaele Gigantino. “In questi quasi due anni di lavoro da remoto abbiamo capito che il lavoro è ciò che si fa, non dove lo si fa. I dipendenti si sono abituati al lavoro flessibile e alla consapevolezza che non hanno bisogno di vivere in città costose per lavorare per un certo tipo di azienda. Sta alle aziende trovare il giusto bilanciamento fra controllo della produttività e misurazione delle prestazioni per essere in grado di attrarre e trattenere i talenti migliori, perché una cosa è certa: il lavoro distribuito è qui per rimanere”.
 

La ricerca di Vmware ha anche evidenziato l’emergere di nuove "tribù” che si sono venute a creare nei posti di lavoro attraverso gli strumenti digitali usati dai dipendenti. Questi gruppi interni alle aziende definiscono una sorta di nuova “planimetria virtuale”, alternativa o sovrapposta a quella degli uffici fisici. Nei contesti di lavoro ibrido diminuiscono le interazioni personali ma di contro acquistano più importanza valori come la trasparenza e la fiducia, che vanno portati avanti dai dipendenti ma anche e soprattutto dai datori di lavoro.

 

Tag: vmware, lavoro, smart working, produttività, Vanson Bourne, lavoro ibrido

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