Il controllo, sì. La curiosità a briglia sciolta e l'invasione di privacy, no. La Corte europea dei diritti dell'uomo di Strarburgo si è espressa sul tema dell'accesso dei datori di lavoro alle comunicazioni Web dei dipendenti, in particolare alla posta elettronica, agli strumenti di messaggistica e a Internet. Un tema controverso, che chiama in ballo da un lato la necessità per chi dà lavoro di verificare la buona condotta del collaboratore, e dall'altro il diritto alla privacy. Il dettaglio più importante è l'obbligo di avvisare in anticipo il dipendente di questa possibilità: la notifica dev'essere data per tempo e deve specificare la natura e durata dei controlli eventualmente previsti.
Il monitoraggio, inoltre, deve tendere ai soli fini del controllo della produttività e del rispetto delle regole: il datore ha il diritto di sapere se il tempo lavorativo viene speso bene o meno, ma non può invadere la sfera privata delle persone indugiando in scopi che esulano da quelli dichiarati nella notifica o prolungando nel tempo i controlli. Va fatta distinzione, infine, tra il flusso delle comunicazioni e il loro contenuto, perché una cosa è accertarsi di quali siano mittente, destinatario e oggetto di una email, altra è indugiare nella lettura dei messaggi.
La sentenza, votata ieri con maggioranza di undici contro sei, ha ribaltato una precedente decisione di un tribunale rumeno, risalente addirittura a dieci anni fa. Nel 2007 un ingegnere all'epoca ventisettenne, Bogdan Mihai Barbulescu, era stato licenziato per aver usato dal posto di lavoro Internet, telefono e fotocopiatrice per fini personali, violando le regole interne aziendali. All'epoca i giudici avevano dato torto all'ingegnere, mentre ora la corte di Strasburgo ha affermato che è stato violato l'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, quello che tutela il rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza.

Gli ex datori di lavoro, infatti, “non hanno protetto in maniera corretta il diritto di Barbulescu” e non hanno gestito “in modo equilibrato gli interessi in gioco”. Il povero ingegnere all'epoca aveva osato chattare con la fidanzata e con il fratello utilizzando il Pc aziendale e, non contenti di aver verificato il fatto, i datori di lavoro avevano pensato di salvare una trascrizione dei messaggi stessi, da esibire come prova. Un po' troppo, specie se si pensa all'attuale e quasi inevitabile commistione tra sfera personale e professionale in moltissimi strumenti tecnologici usati anche per lavorare: la sempreverde email, ma anche Skype, WhatsApp e addirittura Facebook. La sentenza di Strasburgo, allora, riporta un po' di equilibrio e di tranquillità in un universo lavorativo sempre più dominato dalla tecnologia.