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Che cosa serve allo smart working italiano per non fallire?

I Dpcm emessi in Italia n seguito ai contagi di coronavirus, hanno semplificato le procedure della Legge 89/2017 sul “Lavoro Agile”. Molti i potenziali vantaggi, ma è necessario non ripetere gli errori del passato.

Pubblicato il 26 marzo 2020 da Redazione

Si fa presto a dire smart working, ma l’Italia affronta oggi per la prima volta in modo sistematico la questione. Dopo l’arrivo del covid-19 e dai vari Decreti (Dpcm) del 23 febbraio e seguenti, che hanno semplificato alcune procedure, lo smart working ha per la prima volta superato in popolarità l’AI, l’IoT, e tutte le tecnologie più sulla cresta dell’onda.  Per tutta la durata dello stato di emergenza i datori di lavoro potranno utilizzare lo smart working per qualsiasi lavoratore dipendente, e nella Pubblica Amministrazione farlo è addirittura obbligatorio. 

 

Manageritalia stima in quasi un milione le persone che nel Nord Italia attualmente stanno lavorando da casa: praticamente il doppio rispetto alle 570mila censite nel 2019 dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano. È una sorta di riscossa: lo smart working non era mai stato un tema da prima pagina in Italia, dove anzi ha un tasso di adesione tra i più bassi dei Paesi avanzati, il 3,5% dei lavoratori dipendenti secondo Eurostat. Eppure, come altre iniziative aziendali basate sull’IT, esso ha impatti dirompenti che vanno ben oltre i guadagni di efficienza in azienda, e toccano l’organizzazione dei processi, la sfera sociale e la sostenibilità. Ed è un raro caso di situazione “win-win”, che assicura benefici non solo a entrambe le principali parti in causa, azienda e lavoratore, ma anche all’ambiente. 

 

Le aziende, infatti, ottengono miglioramenti della produttività, cali dell’assenteismo e riduzioni dei costi degli spazi fisici. Il lavoratore abbatte tempi e costi di trasferimento, migliora il cosiddetto work-life balance e può trovare maggiori motivazioni, con aumenti di produttività che il Politecnico di Milano quantifica in un 15% medio e che si traducono in 13,7 miliardi di euro di valore per il sistema-Paese. L’ambiente ne guadagna in termini di riduzione del traffico e delle emissioni di CO2.  A tutto ciò poi, come vediamo in questi giorni, per moltissime aziende si aggiunge l’incomparabile beneficio di poter continuare le attività anche in caso di epidemie o di calamità: anche per il crollo del Ponte Morandi, per esempio, il Governo aveva disposto in Liguria misure di incoraggiamento del lavoro da remoto simili a quelle attuali.

 

Lo smart working non è un semplice telelavoro
Come per tutte le rivoluzioni abilitate dalla tecnologia, però, anche lo smart working per assicurare tutti questi benefici impone scelte critiche, che se non ben gestite fanno lievitare i costi ben oltre i vantaggi. Queste scelte riguardano ovviamente le tecnologie, ma anche le condizioni al contorno. Lo smart working infatti non è solo il “lavorare da casa”: richiede di cambiare la cultura aziendale introducendo flessibilità di orari e luoghi di lavoro, ma anche autonomia, delega e responsabilizzazione delle persone. Qualche anno fa in Italia si cercò di promuovere il telelavoro, un “predecessore” dello smart working, tentativo che fallì proprio perché si basava su una replica della postazione di lavoro a casa, senza intaccare la struttura organizzativa e la cultura aziendale.

 

È per questo che lo smart working non si può improvvisare. Non basta dotare una persona di smartphone e laptop ma occorre anche insegnargli a organizzare una videoconferenza, condividere file e documenti, creare un gruppo di discussione virtuale, e soprattutto mettergli a disposizione una connessione veloce e sicura, a prova di hacker, e una piattaforma di Unified Communications and Collaboration (Ucc) il più possibile “universale”, perché clienti e partner possono usare soluzioni di comunicazione molto diverse. Insomma, per beneficiare appieno del nuovo approccio occorre aver creato una “cultura” dello smart working, ma il primo presupposto è una solida base di tecnologie per garantire al personale accessi da remoto sicuri e performanti. Base su cui, poi, rendere disponibili le applicazioni aziendali e su cui formare appunto nelle proprie persone dei veri e propri “skill” e in azienda una cultura di smart working.

 

I pilastri tecnologici dello smart working
Il primo dei pilastri tecnologici per il l’accesso remoto sicuro (secure remote access) è ovviamente Internet: ogni smart worker deve avere una connessione che gli assicuri sempre la banda necessaria a supportare le applicazioni che usa quotidianamente: un montatore video o un progettista hanno esigenze diverse da un amministrativo, ma anche quest’ultimo potrebbe dover fare delle riunioni in videoconferenza. “Servizi Internet dedicati e completamente gestiti possono essere implementati per connettere sedi in remoto, accedere alla Rete e ai servizi di cloud networking, migliorare la collaborazione quotidiana tra i dipendenti e con clienti e fornitori", afferma Eugenio Pesarini, direttore delle Customer Operations di Gtt Communications, operatore la cui rete globale copre oltre 600 punti di presenza. 

 

“La rete alla base dei servizi Internet”, prosegue Pesarini, “deve quindi garantire che il traffico raggiunga la sua destinazione nel modo più rapido ed efficiente possibile e che abbia sempre la via più diretta verso le applicazioni di business, i sistemi e i siti “eb importanti per il lavoratore agile. La nostra visione è che oggi sia sempre più necessario un accesso a Internet sicuro e di qualità, per poter usufruire di tutti i servizi applicativi disponibili in rete ovunque nel mondo, e questo può essere garantito da un vero fornitore globale".

 

In queste settimane di impennata del traffico Web mondiale, emerge chiaramente l’importanza di una buona gestione della rete, che punti a eliminare i colli di bottiglia, a garantire in ogni momento capacità sufficiente per affrontare aumenti di domanda improvvisi e imprevedibili, ad avere una maggiore banda e una minore latenza.

 

 

 

Inoltre occorre dotare il collaboratore dei dispositivi per lui necessari, che a seconda della mansione possono comprendere smartphone, laptop, cuffie professionali, videocamere. Infine, il componente chiave di qualsiasi progetto di smart working è una Vpn, cioè una Virtual Private Network con sistema di gestione degli accessi, che crea una connessione criptata, e quindi sicura, tra il dispositivo del lavoratore e le applicazioni che deve usare nel sistema informativo aziendale o in ambienti di public cloud. Una volta costruite le fondamenta per l’accesso remoto sicuro, diventa possibile usare le applicazioni aziendali come se fossimo in ufficio: quelle di produttività (Office, G Suite o similari), di creazione e gestione documenti, di Erp, Crm, risorse umane e così via. Ma, soprattutto, vista la natura del lavoro da remoto, i collaboratori aziendali devono poter usare servizi voce e soluzioni di instant messaging di gruppo, document sharing e videoconferenza, spesso raccolte in una piattaforma aziendale di Unified Communications and Collaboration (Ucc). Piattaforma che dev’essere prima di tutto semplice da usare, coinvolgente, e deve saper interagire con le altre soluzioni Ucc più diffuse sul mercato.

 

L’emergenza Covid-9 ha costretto molti italiani a lavorare da remoto per la prima volta, un’esperienza che all’inizio può non essere facile né dal punto di vista pratico né psicologico. Ma anche questa va vista dalle aziende come un’opportunità: l’opportunità di creare, anche grazie alle tecnologie più avanzate, un nuovo ambiente di smart working più confortevole e immersivo, che faccia sentire il meno possibile la mancanza del calore umano e dell’interazione faccia a faccia.

 
Tag: ucc, unified communication, lavoro, smart working, lavoro agile, unified communication & collaboration, Gtt Communications, coronavirus, covid-19

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