15/02/2017 di Redazione

Google dà i numeri: obiettivo trasparenza

Fino ad oggi l’azienda ha ricevuto oltre un milione di richieste per rimuovere contenuti e siti dal Web, soprattutto per violazione del copyright, bloccando l’accesso o deindicizzando i risultati dalle ricerche. I Paesi sulla “lista nera”, che impediscono

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La casella mail di Google è intasata. Il numero di richieste giunte all’azienda per “spegnere” i siti Web ha ormai superato quota un milione. Le cifre le ha fornite la stessa Big G nel suo periodico Transparency Report, con cui rende note anche le statistiche legate alle richieste di rimozione di contenuti da Internet, per la stragrande maggioranza a causa di violazione del copyright. È questa infatti la motivazione più ricorrente, che ha portato complessivamente alla rimozione di circa 2,13 miliardi di Url dalla Rete. Guardando il grafico pubblicato da Google, si nota come le richieste di cancellazione sono in costante aumento nel tempo. Il 23 luglio 2012 si era partiti infatti con 1,67 milioni di notifiche, per arrivare al record assoluto del 19 settembre scorso, con 24,12 milioni di richieste. Il processo si avvia quando i proprietari del copyright o le organizzazioni che li rappresentano mandano a Big G le domande di cancellazione di materiale che presumibilmente vìola il copyright.

Ovviamente, il gruppo di Mountain View apre poi un fascicolo con cui esamina il caso. “È nostra prassi rispondere a chiare e specifiche notifiche di presunta violazione del copyright”, scrive l’azienda nelle Faq. “Durante la verifica potremmo rilevare che uno o più Url specificati in una richiesta di rimozione per violazione del copyright, al contrario”, non lo infrangono.

Ma le istanze non provengono soltanto da realtà commerciali decise a tutelare la proprietà intellettuali. “Google riceve regolarmente da enti statali e tribunali di tutto il mondo richieste di rimozione di informazioni dai suoi prodotti”, fa sapere il colosso californiano. Le prime piattaforme oggetto delle mire dei governi sono Blogger, Ricerca Google e Youtube, ma sono comunque coinvolte decine di altri prodotti.

 

Fonte: Google Transparency Report

 

Spesso, però, i Paesi decidono di fare da sé e interrompono direttamente l’accesso alle piattaforme di Big G. I blocchi in corso ancora oggi riguardano quattro Stati: Repubblica del Congo (Ricerca Google), Tagikistan (Youtube), Cina (Gmail, Ricerca Google, Google Sites, Picasa Web Album e Youtube) e Iran (Google Sites e Youtube).

I motivi sono ovviamente quelli di sempre: censura, tentativo di controllare proteste e ribellioni in corso, diverse “sensibilità” di culto e così via. Ma dal 2009 a oggi le interruzioni documentate da Mountain View sono state 69 e hanno interessato Paesi come Marocco, Senegal, Repubblica Democratica del Congo, Libia, Egitto, Sudan, Etiopia, Turchia, Siria e via discorrendo. È presente anche la democratica Australia, ma per un errore tecnico: nel 2012, infatti, i data center di Sydney furono colpiti da blackout, mandando così in tilt il motore di ricerca.

 

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