27/01/2021 di Redazione

Tecnologia, città e lavoro nel post covid: quale futuro ci attende?

Il 2021 è cominciato con le iniziative di green tech di molte aziende. Vmware si impegna con obiettivi di lungo periodo, ma anche con un progetto di riforestazione urbana a Milano.

La tecnologia green è protagonista dei pensieri delle aziende, oggi come non mai. Dopo l’anno dell’esplosione della pandemia di covid-19, un anno in cui forse le preoccupazioni ecologiste sono passate in secondo piano (basti pensare all’interruzione forzata dei servizi di car sharing in città e alla rinuncia ai mezzi pubblici in favore dell’automobile per milioni di persone), il 2021 è iniziato all’insegna delle promesse dell’industria Ict. Un’industria che si sta impegnando a diventare più ecosostenibile e più attenta ai pericoli del cambiamento climatico. 

 

Gli esempi sono variegati. C’è chi, come Lenovo, avvia programmi di incentivo all’acquisto di prodotti “a emissioni zero” (con il meccanismo della compensazione) e chi, come Google, Amazon, Ovhcloud e Aruba, si allinea agli obiettivi del Green Deal europeo con data center alimentati da pannelli solari, impianti eolici o idroelettrici. Finix Technology Solutions, il distributore italiano di Fujitsu, sta investendo nella promozione della startup (e scaleup) bresciana Test1: sua è FoamFlex2000, una tecnologia brevettata che impiega una schiuma poliuretanica per l’assorbimento degli idrocarburi. 

 

La “foresta” milanese di Vmware
Altro esempio italiano, di tutt’altro genere, è l’iniziativa ecologica di Vmware: la filiale guidata dal country manager Raffaele Gigantino ha contribuito a rendere Milano una città un po’ più verde. Lo ha fatto finanziando e realizzando materialmente (a partire dallo scorso ottobre) all’interno del Parco Nord la piantumazione di 500 alberi e piante, un’opera battezzata “Foresta Vmware” e donata alla città meneghina. 

 

Raffaele Gigantino, country manager di Vmware Italia

 

L’iniziativa fa parte del più ampio progetto ForestaMI, con cui il Comune di Milano ha promesso di piantare nel territorio municipale 3 milioni di alberi da qui al 2030. Estesa su un’area di duemila metri quadri, la foresta di Vmware include querce di varie specie (querco-carineto, cerro, rovere), aceri, ciliegi selvatici, esemplari di carpino bianco. Durante il loro ciclo di vita, queste piante assorbiranno 16.750 chilogrammi di CO2 ogni anno, corrispondenti alle emissioni di un’auto di media cilindrata che compia il giro della Terra, o a  35 voli aerei di andata e ritorno da Roma a Londra.

 

 “Stiamo abusando delle risorse del Pianeta ed è importante impegnarsi, sia come cittadini sia come aziende, nello sviluppo di una tecnologia sostenibili”, ha commentato Raffaele Gigantino, country manager di Vmware Italia. “La tecnologia non è né buona né cattiva, è il suo utilizzo che ci può permettere di creare un mondo peggiore o un mondo migliore. Vmware è impegnata da anni a sviluppare soluzioni tecnologiche che hanno come scopo il risparmio energetico”. 

 

La foresta è solo uno dei frutti dell’impegno di lungo termine di Vmware. Nel suo documento programmatico “Agenda 2030”, la società identifica trenta obiettivi misurabili da raggiungere entro il 2030, focalizzati sui tre temi di fiducia, equità e sostenibilità. Accanto alle buone pratiche riguardanti la diversity (per esempio, la promessa di bilanciare la componente femminile e quella maschile nelle nuove assunzioni), gli impegni all’ecologismo comprendono la collaborazione con i partner del cloud pubblico per ottenere operations a zero emissioni di carbonio entro il 2030. E ancora, entro il 2030 Vmware ridurrà del 50% le emissioni totali della sua supply chain rispetto al livello di riferimento del 2018. C’è poi il tema dello smart working, o meglio del “lavoro distribuito”, come lo chiama Vmware: nel caso della multinazionale statunitense, non la semplice risposta alle esigenze di distanziamento sociale dettate dalla pandemia, ma un modello che rappresenta un’evoluzione organizzativa e culturale. 

 

Dallo smart working alla “città in 15 minuti”

Va da sé che il lavoro da casa riduca gli spostamenti giornalieri in città e il pendolarismo, ma lo smart working non può essere applicato a tutti o in tutti i giorni della settimana. Nelle metropoli, pur con differenze notevoli da caso a caso, il revival del trasporto individuale e il conseguente aumento del traffico certo non sta contribuendo alla qualità dell’aria, né alla qualità della vita. Uno studio realizzato da ShareNow e dal Mobility Institute di Berlino ha calcolato che nel mese di aprile 2020 i noleggi di car sharing nella capitale tedesca erano scesi di circa il 56% rispetto ai livelli pre-crisi, mentre ad Amburgo il calo era del 62%. Nello stesso periodo, in entrambe le città il trasporto pubblico registrava cali superiori all’80% dei passeggeri.

 

Se di “nuova normalità” vogliamo parlare, allora serviranno non soltanto nuove abitudini e nuovi sistemi di trasporto (rivalutando i mezzi pubblici, i servizi di car sharing e i mezzi individuali non inquinanti) ma anche differenti modelli urbanistici. Un esempio di ripensamento, logistico e concettuale, delle metropoli è il concetto di “città in quindici minuti” promosso da Ana María Hidalgo Aleu, sindaco di Parigi: una composizione di quartieri autosufficienti e ben connessi l’uno all’altro dalla rete dei mezzi pubblici. Deve bastare un quarto d’ora per raggiungere, ovunque ci si trovi, il proprio luogo di lavoro, la scuola, il supermercato o il parco pubblico di zona. 

 

“Possiamo considerare la città in quindici minuti come una soluzione intelligente per consentirci di avere a portata di mano, anche in tempi di pandemia, tutto ciò di cui abbiamo bisogno”, spiega Leopoldo Freyrie, architetto e urbanista. “In realtà è qualcosa di più profondo e duraturo: è l’idea che si vada verso un concetto di ‘pluri-città’, in cui cui convivono i servizi, il lavoro, i negozi, lo svago, ma anche la natura, in un raggio ragionevolmente corto. Tutti questi borghi che formano la città possono essere vissuti in modo tradizionale ma sono anche connessi tra di loro e connessi al resto del mondo con servizi e possibilità di lavoro”.

 

 

 Leopoldo Freyrie, architetto e urbanista

 

Bello, ma quanto realizzabile? Per gli architetti questa è una grande sfida, che deve coinvolgere la responsabilità ambientale ma anche la responsabilità sociale”, riflette Freyrie. “Si tratta di un ripensamento completo, che ci richiede davvero di essere eretici, visionari, di dimenticarci dei modelli del Novecento. Milano sta tentando di applicare questo modello alle periferie, con nuovi progetti di micro-città”. Altre metropoli, per conformazione, demografia e risorse disponibili, sono forse svantaggiate rispetto al capoluogo lombardo. Quel che è certo è che in una città “a portata di mano”, più vivibile ed ecologica, la tecnologia dovrà essere protagonista, offrendo le infrastrutture necessarie allo smart working ma anche sviluppando nuove soluzioni che rendano sicuri l’uso dei mezzi pubblici e il car sharing anche ai tempi del covid-19.

 

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