I dati sono un tesoro per l’umanità, oltre che per le aziende. L’affermazione non è esagerata: senza i dati il progresso medico, economico, sociale e climatico non potrebbe esistere e non sarebbe possibile nemmeno cominciare ad affrontare le grandi sfide del nostro tempo, come la lotta alla povertà e alle disuguaglianze, la transizione ecologica, la ricerca medica, la gestione delle epidemie.
Si parla spesso di strategie data-driven, di come le aziende cerchino di raccogliere, organizzare e analizzare dati di ogni genere e provenienza per ottenere efficienza e risparmi, per esplorare nuovi mercati, per comprendere meglio i propri clienti e per molti altri scopi che sostanzialmente rimandano alle ragioni del business. Si parla però sempre di più anche di metriche Esg (Environmental, Social and corporate Governance), che rimandano invece a valori etici e di progresso con risvolti positivi sul business, in termini di reputazione, vantaggi fiscali e altro ancora.
Ma quanto i dati vengono già sfruttati per queste finalità? Siamo all’inizio del percorso, come emerso dalla ricerca “Data for Humanity”, pubblicata da Lenovo a fine 2022 e basata su interviste a 600 dirigenti e manager di aziende italiane, francesi, tedesche, britanniche e statunitensi. Il 70% delle aziende del campione (diversificato per settore di appartenenza e dimensione d’impresa, senza scendere sotto ai 500 milioni di dollari di fatturato) al settembre del 2022 stava già utilizzando i dati per raggiungere un mix di obiettivi finanziari ed Esg. Inoltre le aziende prevedono che gli investimenti in tecnologie e iniziative basate sui dati consentiranno un incremento medio dei propri ricavi di quasi il 50% nei prossimi cinque anni.
Sull’importanza degli analytics per il progresso e il bene dell’umanità c’è un discreto consenso: sei intervistati su dieci pensano che sarà sempre più importante far leva sui dati per affrontare le crisi climatiche ed energetiche; più della metà crede saranno cruciali per superare le disuguaglianze economiche, la disoccupazione, i problemi sanitari e alimentari. Alla data del sondaggio, però, solo il 30% delle aziende del campione usava i dati per trasformare gli spazi di lavoro (fisici e digitali) e solo il 26% si impegnava a sfruttarli meglio a fini umanitari.
Aziende italiane informate, ma poco attive
A distanza di un paio di mesi dalla pubblicazione della ricerca, Lenovo ha approfondito l’analisi dei risultati emersi dalle aziende italiane del campione. La maggioranza, il 66%, considera la crisi energetica come la maggiore sfida del futuro, prevedendo che abbia un impatto moderato o importante sulla propria attività nei prossimi tre anni.
Anche il cambiamento climatico è una diffusa preoccupazione: il 59% delle aziende italiane lo considera una minaccia per la propria attività e il 57% una minaccia per la stabilità globale. Una terza ragione di ansia è la disoccupazione, identificata dal 57% delle aziende come un elemento che avrà impatto “moderato o grave” sulle proprie attività. Altri fattori da cui ci si attendono contraccolpi sono la crescita della popolazione mondiale (55%) e la scarsità di cibo, acqua e igiene (53%). Tutto questo si inserisce in uno scenario economico segnato dall’inflazione (arrivata lo scorso ottobre all’11,8%, il valore valore più alto degli ultimi 37 anni), e dunque solo il 58% delle imprese italiane ha visto aumentare i propri ricavi nei dodici mesi precedenti al sondaggio, versus il 61% emerso come media su tutto il campione.
A queste preoccupazioni non corrispondono però, in molti casi, delle azioni conseguenti. Solo il 36% delle aziende italiane medie e grandi ha avviato iniziative o fatto investimenti per rispondere alla crisi energetica. Per la lotta al cambiamento climatico la percentuale si limita al 34%, per la disoccupazione è appena al 18%, per il sovrappopolamento è al 13%, per i problemi alimentari e sanitari è il 28%.
Al momento, le aziende dello Stivale stanno utilizzando i dati e gli analytics soprattutto per trasformare in ottica “smart” il luogo di lavoro (63%, percentuale maggiore rispetto al 55% di media delle cinque nazioni), per le analisi previsionali (61%), per migliorare l’esperienza dei clienti e la fidelizzaizone (60%), per compiere progressi sugli obiettivi Esg (60%), per partecipare ad alleanze o ecosistemi d’impresa (59%) e per questioni relative alle competenze e ai talenti (57%). In generale, come si nota dal grafico qui sotto, rispetto alla media dei cinque Paesi le imprese italiane sono più propense a utilizzare i dati per migliorare parametri relativi al business.
(Fonte: Lenovo, “Data for Humanity”, 2022)
Quali tecnologie supportano questi obiettivi? ll 90% delle aziende italiane del campione prevede di investire nel giro di un anno l’equivalente di almeno un milione di dollari in tecnologie e iniziative data-driven. Solo il 57% ha già in uso soluzioni per i dati altamente automatizzate, mentre il 54% sfrutta tecnologie che permettono di condividere facilmente i dati con i partner. Il 52% archivia in cloud la maggior parte dei propri dati e il 51% crede che i propri dati siano protetti a sufficienza.
Una corretta archiviazione dei dati, l’utilizzo dell’automazione, il cloud e la cybersicurezza sono gli elementi che, a detta di Lenovo, distinguono le aziende “leader” nella gestione dei dati da tutte le altre. In questa categoria rientra il 15% delle realtà italiane considerate in questo studio, quota quasi in linea con la media dei cinque Paesi (16%) ma ben inferiore al 20% della Francia. Perché i “data leader” sono così pochi? La difficoltà nel reperire le competenze necessarie e nel definire le strategie sui dati potrebbe essere la ragione principale.
Alessandro de Bartolo, country general manager e amministratore delegato dell’Infrastructure Solutions Group di Lenovo
Tecnologie necessarie, ma non sufficienti
Il 51% degli intervistati italiani (versus un 46% di media) ha detto che la propria azienda non possiede le competenze necessarie per una buona gestione dei dati, e in particolare per la condivisione dei dati con partner/organizzazioni esterne. Solo il 49% delle aziende italiane ha già messo in atto delle strategie per la condivisione dei dati, ed è marcato lo scarto rispetto al 64% della media emersa dal sondaggio.
“Dalla ricerca appare evidente che investire in tecnologie all’avanguardia sia una condizione necessaria ma non sufficiente per abilitare l’innovazione”, ha commentato Alessandro de Bartolo, country general manager e amministratore delegato dell’Infrastructure Solutions Group di Lenovo. “Le aziende italiane si pongono l’obiettivo di sbloccare il valore dei dati ma per farlo è necessario migliorare la strategia, la cultura del dato e le competenze, oltre a investire nelle migliori soluzioni tecnologiche disponibili”.
“Sappiamo, infatti, che non sono i dati a trasformare il mondo”, ha proseguito de Bartolo. “Da soli, i dati sono impotenti. Occorre l’intelligenza, l’ambizione, la volontà di dargli significato e finalità per accelerare la trasformazione delle aziende e rendere sempre più efficienti le pubbliche amministrazioni, e la nostra società più sicura e accessibile. Per questo noi di Lenovo siamo fortemente impegnati nel percorso di digitalizzazione intelligente a fianco delle imprese italiane. Più in generale, occorre favorire l’accesso a risorse digitali e lo sviluppo di competenze specifiche, e permettere alle aziende e alla PA italiana di compiere quel cambio di mentalità nei confronti della tecnologia che è fondamentale nel percorso verso la competitività e la crescita. In questa prospettiva, il Pnrr rappresenta una grande opportunità per motivare le aziende a investire in tecnologia e a realizzarne il pieno potenziale”.