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Huawei e il processo a Meng Wanzhou: siamo al punto di svolta?

Secondo il Wall Street Journal, gli avvocati difensori della manager, detenuta agli arresti domiciliari con l’accusa di frode bancaria, avrebbero raggiunto un accordo con il Dipartimento di Giustizia statunitense.

Pubblicato il 04 dicembre 2020 da Valentina Bernocco

La direttrice finanziaria di Huawei, Meng Wanzhou, potrebbe presto veder mutare la propria situazione, attualmente quella di detenuta in seguito all’accusa di frode bancaria dovuta alla violazione delle sanzioni statunitensi contro l’Iran. La vicenda, come noto, è ufficiosamente inserita nell’ormai lunga lotta dell'amministrazione di Donald Trump contro Huawei, e più in generale contro le aziende tecnologiche cinesi accusate di spalleggiare Pechino in attività di cyberspionaggio. 

 

La oggi quarantottenne Wanzhou, figlia del fondatore della società, era stata arrestata due anni fa in Canada per poi ottenere gli arresti domiciliari nella propria seconda casa di Vancouver. Dopo la formale richiesta di estrazione inoltrata dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, e le successive udienze cominciate all’inizio di quest’anno, gli avvocati dell’imprenditrice hanno continuato a confrontarsi con i rappresentanti legali del Dipartimento. Da qualche mese la palla è passata alla Corte Suprema, che dovrà esprimere una sentenza in merito alla richiesta di estrazione una volta concluso il processo in corso nella provincia canadese della British Columbia. E ora, forse, si prefigura una svolta.

 

Meng Whanzou (Foto: Huawei)

 

Stando alle indiscrezioni del Wall Street Journal, sull’onda della sconfitta di Donald Trump alle urne (e vista la prospettiva di un governo di Joe Biden interessato a relazioni diplomatiche e commerciali con la Cina più distese), i due team legali avrebbero raggiunto un accordo. O meglio un mezzo accordo, secondo quanto riferito dalla fonte confidenziale, perché gli avvocati dovranno incontrarsi ancora in settimana per sigillare l’intesa. Ma a grandi linee l’accordo dovrebbe prevedere un’ammissione di colpa da parte della manager per la frode bancaria di cui è accusata, per ottenere in cambio la possibilità di tornare in Cina. Se il tutto andrà a buon fine oppure no a buon fine lo vedremo forse lunedì prossimo, quando Meng Wanzhou sarà in aula per la prossima udienza del processo in corso.

 

Finora Huawei ha sempre rigettato l’accusa di illegalità commesse tramite la violazione dell’embargo commerciale. La società ha, sì, venduto tecnologie in Iran ma lo avrebbe fatto (a suo dire) inconsapevolmente, tramite l’operato del partner locale iraniano, Skycom Tech. Quest’ultimo, tuttavia, per il Dipartimento di Giustizia statunitense avrebbe operato sotto controllo diretto di Huawei, come sua sussidiaria ufficiosa, creata proprio per nascondere le vendite dirette in Iran. Alcune rivelazioni di Reuters dello scorso giugno sembrerebbero, sulla base di alcuni documenti visionati, confermare questa seconda interpretazione dei fatti. La vicenda è certamente complessa, poiché si intreccia non solo con la più ampia tensione fra Stati Uniti e Cina sull’import/export e sul presunto cyberspionaggio, ma anche con le relazioni fra gli Usa e un Canada decisamente interessato a non rovinare i rapporti commerciali con il gigante asiatico.

 

 

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