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Open source e software-defined. Ecco lo storage di Red Hat

Iperconvergenza e cloud ibrido sono tendenze destinate a far crescere le soluzioni Sds per ragioni di flessibilità, costi e indipendenza dai vendor. Su queste basi si fonda la strategia dell’operatore di riferimento nel mondo Linux.

Pubblicato il 21 dicembre 2018 da Roberto Bonino

Il mondo dello storage attraversa una fase di significativo cambiamento. Associato da sempre a unità fisiche e supporti magnetici per la memorizzazione dei dati, oggi il mercato si sta decisamente orientando verso la tecnologia all-flash e la logica software-defined: “Il 90% di tutti i dati in circolazione è stato prodotto negli ultimi due anni”, fa notare Alberto Fidanza, storage sales leader di Red Hat Italia, “e questa proliferazione sta spingendo verso soluzioni improntate alla flessibilità e al contenimento dei costi, in particolare sfruttando le opportunità fornite dal cloud e dai container”.

Osservando lo scenario da questa angolatura, si può comprendere meglio l’evoluzione di Red Hat verso lo storage software-defined (Sds) a completamento di uno stack infrastrutturale basato sulla logica aperta. Il cammino ha subito la prima importante svolta con l’acquisizione, avvenuta nel 2011, di Gluster, mentre tre anni dopo è stato il turno di Ceph e Inktank, integrate soprattutto per far fronte all’esplosione del cloud e dei volumi di dati nel contesto dei data center.

Solo apparentemente minoritaria l’acquisizione, nel 2015, di CohortFs, che in realtà ha portato la propria conoscenza nel mondo distribuito e nei gateway di object storage. Attraverso questi passaggi, associati ai successivi sviluppi interni, Red Hat è arrivata a costruirsi un’identità anche nel mondo dell’archiviazione, che ovviamente fa leva sulle caratteristiche fondanti della propria proposta, ovvero l’apertura e la flessibilità dell’infrastruttura software.

“I dati sono ormai dappertutto: nelle macchine fisiche, negli ambienti virtuali e nel cloud”, rimarca Fidanza. “Una soluzione storage efficace deve adattarsi ai carichi di lavoro di ogni azienda e ai suoi ritmi, non a quelli imposti da un fornitore. Il disaccoppiamento della componente software dall’hardware consente di evitare il lock-in con venditori specifici e di lavorare sugli stessi server già utilizzati per altre attività, facendo evolvere le risorse sulla base delle esigenze reali, internamente o in cloud”.

 

Alberto Fidanza, storage sales leader di Red Hat Italia

 

Oltre a coprire, soprattutto con le tecnologie Ceph e Gluster, tutte le tipologie di storage oggi utilizzate, che si tratti di blocchi, file od oggetti, Red Hat ha puntato molto sulla propria competenza nel campo dei container. In particolare, le diverse aziende che hanno già scelto Openshift per containerizzare le proprie soluzioni, possono avvalersi di Openshift Container Storage per automatizzare i flussi di lavoro sia per gli sviluppatori sia per chi lavora nelle operations, con l’intento di ridurre al minimo l’intervento umano.

Un altro punto di forza della società è la presenza nel mondo Openstack, dove Ceph è già piuttosto popolare per la componente storage, mentre in prospettiva ulteriori aree di espansione potrebbero essere rappresentate dai sistemi iperconvergenti e dai data lake, dove lo shared storage è oggi ancora poco esplorato, soprattutto in Italia, ma è destinato ad attirare in futuro maggiori attenzioni.

Con una proposta aperta e definita dal software, Red Hat punta quindi a espandere una presenza che in Italia è già cresciuta parecchio negli ultimi due anni e oggi conta su una cinquantina di clienti, soprattutto in ambito telecomunicazioni, energia, banche, credito al consumo e Pubblica Amministrazione centrale.

 

Tag: red hat, storage, open source

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