Ogni cloud migration applicativa, in qualsiasi direzione avvenga, porta con sé numerose sfide. Vengono toccati aspetti che vanno dalla resilienza dei sistemi informativi alla protezione degli asset digitali di un ecosistema, con impatti sulle prestazioni percepite dagli utenti, sui costi operativi e sulla rapidità dell’innovazione.
Appare ormai assodato che ciò che si sposta in cloud possa trarre vantaggio da condizioni di maggior flessibilità e stabilità. I team It possono organizzarsi su pipeline di integrazione continua e sfruttare la modalità di lavoro DevOps per automatizzare i flussi implementativi, sfruttando il packaging di applicazioni in container, i microservizi e l’orchestrazione con Kubernetes.
Nell’attuale fase storica, alle già sentite esigenze di accelerazione dello sviluppo di nuovi servizi e alla loro distribuzione senza alcun riflesso sulla produzione, si aggiungono le pressioni derivanti dagli effetti della pandemia, con il suo carico di emergenze e incertezze: “Con il nostro approccio ibrido”, spiega Andrew Brinded, vice president e general manager Emea Sales di Nutanix, “abbiniamo il meglio del cloud privato e di quello pubblico. I workload devono potersi allocare dove conviene di più per ottenere il massimo valore, soddisfare bisogni specifici anche urgenti o testare nuove applicazioni in modalità minimum valuable product. Qui interviene Nutanix, con la propria piattaforma 100% software, capace di eseguire task su diversi server e in cloud, per ottenere anche un vantaggio economico tangibile”.
Per non lasciare questi concetti nella vaghezza di una riflessione filosofica, a supporto arriva l’esperienza di Jm Finn, società di investment management, da tempo organizzata per i processi su un’infrastruttura di private cloud. Data la natura del proprio business, molti dei dipendenti sono “power user”, che hanno bisogno di macchine ad alte prestazioni, con schermi multipli e alta connettività. Il Covid-19 ha stressato molto l’infrastruttura, nel momento in cui ha costretto a far lavorare tutti da remoto, mantenendo elevati standard di sicurezza e allineamento alle stringenti normative del mercato dei servizi finanziari.

Andrew Brinded, vice president e general manager Emea sales di Nutanix e Jon Cosson, Cio e Ciso di Jm Finn
Jon Cosson è oggi a capo dell’It e della sicurezza informatica di Jm Finn, dopo essere entrato in azienda oltre vent’anni fa e aver presto introdotto la virtualizzazione (con Citrix). Con il lockdown di un anno fa, è stato necessario cambiare un ambiente operativo costruito su sei uffici sparpagliati geograficamente, per trasformarlo in una rete di circa 350 uffici situati nelle abitazioni dei dipendenti, il tutto in meno di una settimana: “Abbiamo dealer a Londra che lavorano con otto schermi simultaneamente e abbiamo dovuto ricreare lo stesso ambiente a casa loro, in sicurezza e massima connettività”, ricorda il manager. “L’ottima notizia è che avevamo appena aggiornato l’infrastruttura con Hci di Nutanix, già testata e operativa. Quindi, abbiamo fatto tutto in cinque giorni e nessuno ha veramente notato qualche differenza. Pur lavorando su una rete virtualizzata, le prestazioni non sono calate. L’iperconvergenza ci ha consentito di combinare tre differenti tecnologia in una sola, rendendo tutto molto più economico per l’azienda”.
La pandemia ha spinto Jm Finn a considerare cambiamenti in altre aree del provisioning It. Quest’anno, in ballo c’è lo spostamento dei data center dalla costosa location della City of London: “Muoveremo tutto verso nostre proprietà fuori Londra”, conferma Cosson. “Se la decisione, in passato, avrebbe portato a nuove sfide in termini di consumo di energia e altre questioni ambientali, con Nutanix abbiamo dimensioni che equivalgono a un terzo di quelle precedenti. Così, lo spostamento sarà più agevole e i risparmi in dieci anni fenomenali”.