11/03/2020 di Redazione

Realtà virtuale e aumentata, un mistero per un italiano su quattro

Uno studio di Digital Transformation Institute e Cfmt svela che il 75% degli italiani conosce VR e AR, ma appena il 5% utilizza abitualmente queste tecnologie.

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La realtà virtuale e quella aumentata non sembrano destinate a essere mode passeggere, anzi: da anni se ne parla e la loro adozione è in crescita, benché ancora limitata ad una manciata di utilizzi. I videogiochi, il marketing più innovativo e qualche avanguardistica esperienza di turismo, nel caso della Virtual Reality; app mobili di vario genere (per arredare casa, per giocare, per esplorare l’ambiente circostante, per fare shopping) e smart glasses al servizio dell’industria, della medicina, della logistica, della manutenzione nel caso della Augmented Reality. Per la gente comune, però, che cosa significano questi due fenomeni? Si sono posti questa domanda il  Digital Transformation Institute e Cfmt (Centro di Formazione Management del Terziario), realizzando un interessante sondaggio su un campione, purtroppo non specificato, di utenti. 

 

Lo studio, titolato “Retail Transformation 2.0”, fornisce un quadro della percezione della blockchain, che risulta essere un fenomeno abbastanza conosciuto ma anche parecchio frainteso. Rispetto alla blockchain, AR e VR sono leggermente meno conosciute, ma la percentuale degli utenti che dichiarano di averne consapevolezza e che sa darne una generica definizione è comunque alta: 75%.  Alcune categorie di utenti hanno ancor più familiarità, ovvero i giovani tra i 18 e i 24 anni (in questo gruppo la percentuale sale all’87%), le persone con grado di istruzione elevata (87%) e competenze digitali avanzate (87%).

 

Tra le parole o espressioni più spesso associate ad AR e VR ci sono “percezione”, “simulazione” e “percezione sensoriale”. Nel chiedere agli intervistati di fare qualche esempio di realtà virtuale o aumentata, gli autori del sondaggio hanno ricevuto come risposte più frequenti i videogiochi e la chirurgia a distanza.

 

 

Ma le potenzialità sono anche altre. La didattica a distanza, per esempio, un tema balzato purtroppo agli onori della cronaca in relazione alla chiusura delle scuole per l’emergenza del coronavirus; e lo stesso di potrebbe dire della formazione professionale. I visori e le applicazioni di VR potrebbero rendere più realistiche ed efficaci queste attività? A questa domanda la maggioranza degli intervistati ha dato risposte possibiliste. L’opinione prevalente è che un visore potrebbe fornire un’esperienze di apprendimento interessanti, ma “da valutare se opportunamente integrate con la didattica tradizionale”. C’è soltanto un 22% di utenti restìo, che considera la realtà virtuale applicata alla formazione come un possibilità “di poco conto” (11%) o addirittura “assolutamente dannosa per la didattica”.

È interessante notare come sul tema della realtà virtuale si vivano, rispetto alle altre tecnologie, i momenti di radicalizzazione più forti nell’utenza”, fa notare Stefano Epifani, presidente del Digital Transformation Institute e coordinatore scientifico della ricerca. “Tendiamo a vedere nelle applicazioni che si basano su questa tecnologia il punto di unione più profondo tra il mondo digitale e quello analogico, e non ci rendiamo conto che tale unione è invece agita con molta più forza attraverso strumenti come l’Internet of Things”. Il grado di accettazione di AR e VR, in ogni caso, è in crescita e anche nel campo del retail, spiega Epifani, si iniziano a vedere applicazioni efficaci.

Se però ragioniamo sull’effettivo utilizzo, queste due tecnologie hanno chiaramente molta strada da fare. Solo il 5% degli intervistati ha detto di essere un utilizzatore regolare di strumenti quali “visore, guanti, cuffie per giocare e/o fare esperienze in un ambiente virtuale”, mentre al 37% è capitato di usarli occasionalmente il 57% non lo ha mai fatto. Simile è lo scenario per la realtà aumentata, i cui utenti regolari sono appena il 6%, quelli che l’hanno provata almeno una volta il 29%.

 

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